CHIANCHE, CHIANCHETELLE, CHIANCHERE, CHIANCONE, CHIANCARELLE…* DALLE LASTRE DI PIETRA ALLE MACELLERIE

Cultura

(Ph Wikipedia)

Cosa può collegare i famosi trulli di Alberobello all’arcaica via Appia dei Romani e agli antichi paesi di Chianche e Chianchetelle dell’Irpinia? La risposta va ricercata in una (lastra di) pietra particolare, che segnò tanti dialetti italiani e anche nell’uso di alcuni termini comuni per indicare i macelli, compresi quelli di Tursi. Ma perché e quando una piccola parte (la pietra) rappresentò il tutto (la macelleria), con un notevole salto metaforico e funzionale dalla terra alla sua custodia privilegiata?

Come è noto, macelleria è un nome che deriva dal latino macellum, ovvero macello, che significa oggi mattatoio e mercato delle carni, ma un tempo indicavabottega, locale o negozio specializzatonella vendita al pubblico di carni macellate e derivati. Pure macellàio proviene dal latino macellarius o macellaro, cioè venditore di carne macellata, altrimenti chi, nei mattatoi e nei luoghi appositi, abbatte, scuoia e seziona gli animali domestici destinati all’alimentazione (per estensione, curiosamente, colui che persegue fini di dubbio valore strategico, o che ordina, in operazioni di rappresaglia, vere e proprie carneficine di civili per fiaccare il morale della popolazione). Il garzone del macellaio, invece, è detto macellarétto o macellarino, ma è davvero un diminutivo, poco comune.Al tempo di Roma, accanto ad altre denominazioni, il macellaio era denominato anche lanius, da laniare, cioè fare a pezzi, a cui si collega l’attuale “dilaniare”.  Un sinonimo abbastanza diffuso di macelleria è beccheria, bottega di beccaio, cioè chi lavora nella bottega, il quale a sua volta deriva da becco, com’era chiamato in alcune regioni italiane, il caprone / montone oggetto della macellazione. (Treccani on line, Wikipedia, Dizionario on line De Mauro, Corriere.it e tanti altri).

Tuttavia, facendo un pur rapido approfondimento, risalta subito evidente come il termine macelleria abbia assunto nel corso del tempo storico, e nel radicamento territoriale dei diversi dialetti, almeno una duplice declinazione sostanziale e prevalente, derivante essenzialmente da becco / beccaio / beccheria e da chianca / chianche / chianchere. A titolo esemplificativo: in Basilicata:chianca, chianche, chianga; Calabria:bucceria, chjànga; Campania: chianca; Friuli Venezia Giulia:becaria, beccheria; Lombardia: becarìe (premana), becarèa (bechér: macellaio) macelerìa; Puglia:chianca.

E cosi anche il termine macellaio: in Basilicata: chianchiru, chianghèr; Calabria: buccèri, bucceri, macellaju; Campania: chianchiere; Friuli Venezia Giulia: bechèr, beghèr,  becjar; Lombardia: bché, beché, bechée, béchèr, bsiné, macelàar, macelàr; Puglia: u vuccir, vecciere, carnaiùole (di equini); Emilia Romagna: bcär, maslär, mazler, pcàr, pcher, pcär, pcär; Liguria; maixelà; Marche: masarin (macellaio ambulante); Molise: macellare; Piemonte: maslé, becché; Toscana: beccaio (arcaico), macellaro, norcino; Veneto: becàr, becàro; Trentino Alto Adige: bechèr; Valle d’Aosta: beutsé; Corsica: macellaru, macellare, macillaru, maceddaru, macillaru.

Occorre dunque soffermarsi sulla derivazione e l’utilizzo traslato di chianche, un’antichissima tipologia di pavimentazione in pietra, nota soprattutto in Puglia (oltre alla pietra di Trani, di Lecce eccetera). Il termine, forse di origine medioevale, significa alla lettera “lastra di pietra”, tanto da formare un tipo di pavimentazione storica realizzata in pietra calcarea durissima, ancora oggi molto comune nella zona delle Murge, dei Trulli e nel Salento, dove viene utilizzata sia negli interni che negli esterni delle tipiche costruzioni rurali, in particolare dei trulli, le caratteristiche costruzioni che connotano un’area ben definita della Murgia barese sud-orientale, cioè la valle d’Itria, e particolarmente la cittadina di Alberobello, emblema nel mondo e tra i siti dell’Unesco come Patrimonio dell’umanità. In base alle esigenze progettuali e realizzative, la pietra si presta a dimensioni e formati diversi con tagli variabili di spessore: le chianche, tipiche delle citate costruzioni a trullo; e le lastre più sottili chiancarelle, perle coperture a tetto e delle volte coniche (dette anche chiancole), posate in opera, assolutamente a secco, a strati sovrapposti, che ne garantiscono l’impermeabilità, evitando l’infiltrazione delle acque meteoriche. Molte vie dei centri storici pugliesi sono così pavimentate, in particolare il centro storico di Bari, dove vennero usate anche nei pavimenti delle abitazioni. Quando nella pavimentazione sono utilizzate pietre di dimensioni notevoli esse assumono il nome di chianconi (nell’uso dialettale ha anche un senso traslato e indica il carattere “pesante” di alcune persone). C’è poi il riutilizzo della vecchia chianca, una pietra riesumata dalle antiche pavimentazioni che trova nuovi usi per interni ed esterni, essendo un prodotto antigelivo e ad alta resistenza.

La sintesi fin qui esposta è storicamente accettata, ma è necessario doversi riferire altrettanto indiscutibilmente a una antichità precedente collocata in Irpinia, dove le chianche erano già in uso al tempo di Roma. Anche il termine locale chianche o chianca, usato nel Medioevo (V – XV secolo), pare di derivazione dal latino planca con probabile riferimento alle plancae (pietre poligonali con le quali i romani lastricavano le strade). Della località Chianche si ha traccia documentale almeno dal XIII secolo quando era un casale dipendente da Montefusco. Chianchetelle (o Chianchetella, raramente Chianchitelli) è oggi una frazione collinare del comune di Chianche, in provincia di Avellino. Di origine medievale, un tempo feudo indipendente e a lungo comune autonomo fino al XIX secolo, Chianchetelle si colloca non molto lontano dall’antica via Appia, inoltre, da una cava, tuttora esistente, si estraevano e ricavavano pietre quasi geometriche dette “plancae” e da tale termine sembra provenire l’etimologia del toponimo. Nel Medioevo, infatti, chianche era appellata anche chianca, dal sostantivo latino planca(al singolare: asse da tavola), ma con molta probabilità si faceva riferimento alla forma plurale plancae, cheaveva il significato di ‘lastra di pietra calcarea o terreno disseminato di pietre’, con allusione evidente ai massi piatti poligonali posti come lastricato anche della vicina via Aquilia, ovvero alle note pietre semiquadrate con le quali già i romani pavimentavano le loro strade. Dunque, non c’è dubbio alcuno sulla collocazione di tali pietre, per pavimentare strade o interni abitativi.

Ma perché la macelleria (e il derivato macellaio) venivano indicati in non poche forme gergali, compreso il dialetto tursitano, rispettivamente con il termine dialettale chianche (e chianchere)? Semplicemente perché dentro il locale, nell’arredo necessario allo svolgimento della professione, si usava in particolare una chianche, ovvero una lastra di pietra per meglio affilare gli attrezzi da taglio, soprattutto coltelli, mannaia, simile a quelle delle pavimentazioni stradali, appunto, non molto spessa e di forma circolare / ovoidale o sovente quadrilatera, talvolta con al centro un modesto buco di scolo. La chianche era dunque un attrezzo fondamentale per la garanzia del lavoro del macellaio, in forma modesta usata nelle stesse private abitazioni (a volte perfino come attrezzo di gioco tra ragazzi, per fare tagliole per acchiappare e schiacciare i piccoli uccelli). E sembra che chianchere fosse così appellato uno specialista muratore dei pavimenti al quale bastava un colpo d’occhio per ottenere l’armonica composizione geometrica dell’irregolare mosaico nella pavimentazione.

Nella forma letteraria dialettale acquisita storicamente nel Novecento, il grande poeta Albino Pierro (Tursi, 1916-Roma, 1995), pure candidato al Nobel, fornisce due accezioni di chianche: sia come macello sia come lastra di pietra, giustappunto. Per Franco Ottomano, presidente del Centro Studi e del Parco Letterario Albino Pierro, il Vate Tursitano ne fa riferimento almeno in tre poesie: “nd’i grire di na chianche /fra gridi di macelli”, in Nun ci pozze accustè / Non ci posso accostare, nella raccolta Famme dorme / Lasciami dormire, 1971; “zicchète sutt’a na chianche / schiacciata sotto una lastra di pietra”, in Pur’a mmi, mò / Pure a me adesso, nella raccolta Com’agghi’ ‘a fè? /Come debbo fare?, 1977;  “òje, fora paise, na bella chianche / oggi fuori paese un bel macello”, in Rivigghiete, uagliò /Svegliati, ragazzo, nella raccolta Dieci Poesie, 1981 (nell’opera omnia “Albino Pierro Tutte le poesie. Edizione critica secondo le stampe” a cura di Pasquale Stoppelli, Tomo II, Salerno Editrice Roma, 2012, rispettivamente nelle pagine: 453, 509-10, 545-46).

Comunque, sorprende davvero tanto che nel territorio tursitano, dove abbonda la sottile e friabile “timpa”, in geologia “Le sabbie di Tursi”, esistono due cave di chianche, una nel territorio dell’antica frazione di Caprarico (Ricco di capre) e un’altra in località Acqua saprìta (Acqua salata), al lato del canale Pescogrosso e a nord della omonima sorgente; ma la cosa che stupisce più di tutto di quest’ultima è un’altra, essendo chiamata anche chianche, a’ libreria. A cosa è dovuto tale processo di nominazione, con una similitudine così “letteraria”? Probabilmente nacque ad opera dei nobili e benestanti proprietari, non certo di analfabeti. Forse perché le chianche si sfettano / sfogliano come libri? Talvolta, in effetti, può capitare di trovare resti fossili all’interno. Forse perché almeno nell’Ottocento le chianche si vendevano alla pari dei libri (cioè non tutti potevano permetterseli)? O forse è un omaggio residuale alle inscrizioni lapidee di antica memoria? Di certo le due cave tursitane si presentano in modi e con caratteristiche differenti: la chianche capraricese ha il posizionamento orizzontale e le venature rossastre, mentre la chianche acquasapritese si presenta con sfumature bluastre e in forma verticale, cioè proprio come una libreria con i volumi dritti.

Salvatore Verde   ©

*Per la scrittura dell’articolo mi sono avvalso di una pluralità di autorevoli fonti on line e di parecchi amici tursitani, oltre che conoscenti reali vicini e lontani. Pertanto, mi sento in dovere di ringraziare almeno (in ordine alfabetico): Maria Libera Albanese, Luigi Anobile, Pina Branda, Antonio Bruno, Giuseppe Romolo Cardillo, Salvatore Di Gregorio, Carmela Di Napoli, Grazia Disciglio, Donato Fusco, Antonio Grasso, Salvatore Gravino, Vincenzo Gulfo, Antonio Liguori, Armando Lostaglio, Pierantonio Lutrelli, Mariantonietta Marinelli, Antonio Petrocelli, Filippo Spadafora, Maria Lucia Tricarico, Federico Valicenti, Luciano Virgallito, Angelo Vozzi.

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