IL SARCOFAGO POLIZZI (XIX SECOLO) DI GERACE (RC)

Scritti corsari

Se osserviamo la pianta della Cattedrale di Gerace, notiamo che pur essendo la chiesa di stile romanico-normanna è orientata, secondo lo stile bizantino, con le absidi verso oriente e l’ingresso è ad occidente. Se percorriamo la navata laterale destra sfociamo in uno slargo che potrebbe ben rappresentare, per forma e dimensioni, una piazzetta. Di fronte ci appare, quasi fosse una prosecuzione della navata di destra, una meravigliosa e ricca cappella di stile gotico con la volta a crociera cordonata e sull’altare rinascimentale un grande tabernacolo (in pianta n. 12). La Cappella intitolata al SS. Sacramento fu costruita nel 1431 per devozione dei fratelli Giovanni e Battista Caracciolo, primi conti di Gerace. Il monumentale Tabernacolo venne realizzato successivamente, nel XVI secolo, commissionato da Ferdinando de Cordova, che fu duca di Terranova e marchese di Gerace dal 1530 al 1558, nipote del famosissimo Gran Capitano Don Gonzalo de Cordova. Nella parete a destra dell’ingresso alla Cappella del SS. Sacramento si trova un monumento sepolcrale (in pianta n. 11), con il sarcofago di Giovanni e Battista Caracciolo conti di Gerace. Ruotando in senso orario, la parete laterale è provvista di una porticina a sinistra, quasi confinante con il sepolcro dei Caracciolo e in alto di due finestroni che fanno entrare i raggi del sole, con effetto suggestivo, ai lati di un grandissimo Crocefisso posto al centro della parete. Ammirando il Crocefisso alla sua destra si trova un altro monumento sepolcrale proprio di fronte, simmetrico, a quello dei conti Caracciolo. (in pianta n.10)

Il foglietto, ritirato all’ingresso della parte absidale della Cattedrale, riporta come legenda al numero 10 una breve indicazione: “Sarcofago del patrizio messinese Polizzi, esule dalla sua patria per aver combattuto contro gli spagnoli nel 1674.”

                                                           Cappella del SS. Sacramento.

       Sarcofago dei conti Giovanni e Battista Caracciolo e dettaglio stemma.

Il monumento sepolcrale di Polizzi sembra dimenticato, isolato senza alcuna descrizione. Tale condizione giustifica il pensiero esternato da qualcuno circa la cancellazione dalla memoria: né una lapide, né un minimo di cartellino indicante il sepolcro, che tale casato si fosse macchiato di una grave colpa per cui la conseguente punizione era stata quella dell’oblio. Eppure il monumento sembra ricco ed importante consono a un casato illustre. Allora perché tale oblio? Se fosse a causa di un grave misfatto non sarebbe stato più consono la demolizione del sarcofago o il suo trasferimento in altro luogo meno prestigioso della Cattedrale e addirittura meno sacro? Come avviene spesso si comincia con l’interrogarsi per poi impegnarsi per approfondire la conoscenza delle cose e delle vicende che non hanno avuto una pronta risposta.

                                               Sarcofago del patrizio Polizzi,

Come avviene quando non si hanno elementi certi come possono essere i documenti,si parte da altri indizi storici quali le iscrizioni, le monete, i sigilli e, in una parola, dall’araldica che è come un documento, certo e storico, che identifica il personaggio che ne è o che ne è stato il titolare dell’arma e la di lui famiglia, il casato. Lo stemma scolpito non è molto chiaro, ma con uno sforzo visivo si possono identificare le figure contenute nello scudo.  

              Stemma del sepolcro Polizzi.

Il monumento sepolcrale, come dicevamo, è di fattura pregevole ed è direttamente riconducibile ai fratelli Ottavio e Felice Polizzi, fu scolpito nel 1599 da Lorenzo Calamech, nel duomo di Gerace. Da un atto notarile del 1599 risulta che lo scalpellino Giovambattista Lucifero era stato incaricato, nel 1597, di ornare la cappella gentilizia dei Polizzi nel duomo di Gerace, ma lasciò l’incarico della realizzazione del monumento sepolcrale all’ amico artista Lorenzo Calamech da Messina. Il sepolcro è stato realizzato in marmo di Carrara e con l’uso della “petra miscia” di Taormina. Il compenso per l’opera pagato allo scultore fu di 180 ducati d’oro messinesi. Queste notizie ancora non ci fanno comprendere chi fossero i Polizzi e anche l’articolato stemma, di cui diremo in seguito, presenta elementi che non ci aiutano ad individuare il casato, pertanto dobbiamo fare un viaggio a ritroso nel tempo fino a giungere alle origini del casato di Polizzi. I Polizzi, o meglio da Polizzi poiché all’epoca non era ancora un cognome, sembrano insediati già dal 1365 nell’Agrigentino. Una delle antiche e nobili famiglie di Sicilia, si stabilì in Girgenti, dove Simone di Polizzi, per servigi militari prestati al re Federico III, nel 1374, ottenne il feudo di Burraiti. La famiglia Polizzi godette di nobiltà in Palermo, Castrogiovanni (oggi Enna), Traina, Messina, Randazzo e successivamente un ramo secondario passò in Caltagirone, da dove si diramò in Catania. (Filadelfo Mugnos – genealogista del XVII secolo).

Lo stemma riferibile al casato Polizzi nobili siciliani è così rappresentato:

Arma: d’oro a tre pali di rosso, che è d’Aragona, ritirati verso la punta, sormontati nel capo da una stella dello stesso colore, e corona di marchese.

Blasone adottato dalla famiglia Polizzi di Castrogiovanni (ora Enna) nel XIX secolo:

Arma: di verde, al castello di tre torri, sormontato da tre stelle di sei raggi male ordinate, il tutto d’oro.

I Polizzi di Castrogiovanni e Piazza Armerina, nel 1582:

D’azzurro alla fascia d’oro accompagnata in capo da due stelle (8 raggi) accostate racchiuse in profilo e in punta da giglio, il tutto d’oro, timbro con elmo di profilo e lambrecchini. L’appartenenza dei Polizzi di Gerace e Napoli, da intendere in senso ampio come Regno di Napoli, allo stesso ceppo dei Polizzi siciliani sembrerebbe fondata solo sull’uso del medesimo scudo araldico e sulla notizia di un attestato di nobiltà generosa (200 anni) richiesto, a fine settecento, a Palermo da un Polizzi napoletano.

I Polizzi ramo Napoletano.

I Polizzi nel Cinquecento sono già inseriti nella società di Gerace, come testimoniato dal pregevole sarcofago familiare presente nel transetto della Cattedrale della città. Il “Magnifico” don Giuseppe Polizzi nel 1697 è procuratore della Cappella del SS. Sacramento nella città di Bianco, che fa parte della diocesi di Gerace.  Inoltre, con atto rogato dal notaio Giorgio Callà, aveva venduto la casa “seu spedale” di proprietà di detta venerabile Cappella. Il titolo di “magnifico” denota l’appartenenza al ceto dei possidenti viventi “more nobilium”. Sempre, nel circondario di Bianco, Antonio Polizzi aveva ricevuto, il 9 agosto del 1693, dal padre una donazione come dote per intraprendere la carriera ecclesiastica. Si ha notizia di tale Girolamo Polizzi, notaio in attività fino al secondo decennio del XVIII secolo. Risulta da una visita pastorale della diocesi di Gerace del 1541, che le condizioni strutturali della chiesa di Santa Marina, in Bianco, erano talmente precarie da indurre il vescovo a minacciare l’Abate rettore Pietro Paolo Polizzi della scomunica e della pena di dieci rotoli di cera se non avesse provveduto alle riparazioni. Il Polizzi non ottemperò e due anni dopo gli furono inflitte le minacciate sanzioni, nonostante l’Abate appartenesse ad una tra le più nobili e importanti famiglie del luogo. Don Vincenzo Polizzi è nel 1783 tenente della Reale Accademia del Battaglione Real Ferdinando, ivi tiene come professore le cattedre di Matematica e Artiglieria teorica e pubblica un noto saggio “Esame delle palle cilindriche per uso de’ cannoni” che gli procura  fama internazionale come esperto di Balistica. La presenza di Vincenzo nel corpo docente dell’accademia militare denuncia la nobiltà generosa di Vincenzo, trattandosi di una scuola riservata a questo ceto. Nel 1799 Vincenzo è in Sicilia con il grado di colonnello al comando della brigata di circa 1300 uomini, come direttore del Corpo reale d’Artiglieria e Genio nell’esercito borbonico rifugiatosi in Sicilia durante la Repubblica Napoletana (1799) e poi per l’occupazione di Napoli da parte di Giuseppe Bonaparte. Nel 1808, per un breve periodo, Vincenzo Polizzi, con il grado di brigadiere generale, fu nominato comandante generale dell’Arma di Artiglieria. Don Vincenzo sposò donna Anna Maria Coscinà De Luna, figlia di Francesco Coscinà barone di Careri. Per non perdere il filo della nostra ricerca, una volta appurato che i Polizzi del Regno di Napoli appartennero al ceto nobiliare e ricoprirono importanti cariche militari ed ecclesiastiche e rimandando ad autorevoli e dettagliati testi di storia, prendiamo a considerare lo stemma presente nel monumento sepolcrale che si distacca nettamente da quelli utilizzati e attribuiti ai Polizzi del ramo Siciliano. Gli smalti e metalli del blasone lapideo sulla tomba di Ottavio e Felice Polizzi da Gerace non sono leggibili.

Arma: semipartito troncato, nel primo di verde a tre stelle di sei raggi male ordinate, nel secondo di azzurro al leone d’oro rampante su palo d’argento, nel terzo alla fenice sorante sopra la sua immortalità, guardante il sole d’oro orizzontale a destra, su sfondo di due montagne, timbro con elmo chiuso di profilo e lambrecchini. Ipoteticamente il terzo elemento potrebbe significare una parentela con la famiglia Rao di Messina, che possiede identico disegno araldico; in questo caso lo sfondo sarebbe azzurro e la fenice argento. Il leone rampante d’oro in campo azzurro è ripreso, probabilmente, dal blasone dei conti di Brienne, che i Polizzi credettero, o vollero far credere, loro antenati. Rappresentiamo le figure araldiche come sono esposte nei blasoni dei Rao e dei Brienne.

Per il casato Rao abbiamo tre stemmi:

Arma: d’azzurro alla fenice d’argento sopra la sua immortalità di rosso, guardante un sole all’orizzonte d’oro a destra. Famiglia Rao (Messina, Palermo, Noto) d’azzurro, alla fenice sorante d’argento sopra la sua immortalità di rosso, guardante il sole d’oro, orizzontale a destra. Alias: d’azzurro alla fenice d’argento sopra la sua immortalità di rosso, guardante un sole all’orizzonte d’oro a destra.

Per il casato di Brienne due stemmi:

(sopra) Arma: d’azzurro, al leone d’oro, con la coda annodata, bifida e decussata.

(sotto) Arma: d’azzurro, seminato di plinti d’oro, al leone attraversante dello stesso.

Tirando le somme si può ipotizzare che la memoria di questo casato, i Polizzi del Regno di Napoli, sia venuta meno per dimenticare qualche episodio che, con eufemismo, potremmo definire disdicevole. Infatti, dobbiamo riportarci agli inizi del Regno di Italia di Casa Savoia per incontrare un Polizzi. Il 18 aprile 1861 il deputato Bettino Ricasoli così ricostruisce tali avvenimenti in una sua interpellanza parlamentare:

« Sui sessanta e più ufficiali generali, se eccettuate i generali De Sauget e Topputi, sei soli sono quelli che furono ammessi nell’Esercito, ossia Negri e Polizzi d’artiglieria, l’uno ispettore e l’altro comandante generale dell’Arma, nominati a tali cariche dal Governo dittatoriale; Gonzales e Sponzilli, l’uno ispettore e l’altro direttore dell’Arma del genio, e questi quattro generali sono destinati in Torino ai Comitati delle armi rispettive, sia pei loro talenti, come pei loro consigli, dei quali abbisogniamo per tutto ciò che esiste o vogliasi fondare nelle piazze, negli arsenali ed in tutti gli opifizi di guerra esistenti in quell’antico regno. »

Il riferimento è a Giovanni Polizzi, che dopo una lunga carriera nell’Arma di artiglieria fu promosso brigadiere generale il 21 dicembre 1855, e da allora si occupò della ispezione del personale dei Corpi facoltativi (Artiglieria e Genio). Il 18 giugno 1860, Giovanni fu promosso maresciallo di campo e nominato comandante della Provincia e piazza di Napoli dove permise disordini e aggressioni ai posti di polizia. Per la sua negligenza fu sostituito il 2 luglio e rinviato all’Ispezione di artiglieria. Entrato Garibaldi in Napoli, il Polizzi si mise a sua disposizione, e il governo dittatoriale lo nominò maggior generale e comandante generale dell’Arma di Artiglieria. Per la profonda conoscenza del personale, Giovanni fu accettato nell’Esercito italiano come effettivo, nonostante i suoi settantadue anni. Fu utilizzato dai Piemontesi in Torino, per l’ammissione all’Esercito italiano degli ufficiali di artiglieria borbonici, comportandosi in maniera spietata nei confronti dei suoi ex commilitoni. Terminato l’incarico fu subito messo a riposo.

(Testo inedito dell’autore, del 4 ottobre 2017)

Antonio Fotia

Bibliografia

Luciano Catalioto, Aspetti e problemi del mezzogiorno d’Italia nel tardo medioevo (XIII-XV sec.). Potere feudale, signorie territoriali, autonomie urbane e mercati, Reggio Calabria: Leonida editoriale, 2008.

Monica De Marco, Giuseppina De Marco, Vincenzo Naymo, Dal primo Rinascimento all’ultima maniera: marmi del Cinquecento nella Provincia di Reggio Calabria, Pizzo: Esperide, 2010.

Salvatore Gemelli, La Terra del Bianco tra Seicento e Settecento – Note preliminari dal protocollo del notaio apostolico Antonio Cavallaro (1693-1712), “Rivista Storica Calabrese” n.s., 4 (1983) n. 1-2, pp. 257–281.

Felice Costabile [et al.], I ninfei di Locri Epizefiri: architettura, culti erotici, sacralità delle acque, Soveria Mannelli: Rubbettino, 1992.

Antonio Fotia, Bianco antico, vecchio e nuovo, Marzi, 2001.

Lascia un commento