IN MEMORIA DI UN AMICO SPECIALE, IL PICCOLO GRANDE RONNI (1995-2006)*

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Sono trascorsi più di sei anni e se lui potesse ascoltarci gli direi che mai lo abbiamo dimenticato. Ronni si è spento nel primo pomeriggio di sabato 23 settembre del 2006, esattamente alle 15,30, in una calda giornata di primo autunno, molto solare. Più che un nostro caro amico, egli era il sesto componente aggiunto della famiglia, adottato da circa un decennio. Ci ha lasciati dopo quasi trenta ore di muta agonia, sopportata con (in)naturale silenzio e grandissima dignità, come sanno fare solo gli esseri viventi dotati di rara intelligenza e sensibilità, nella disperata ricerca di una quiete rannicchiata.  Nessun segno premonitore lasciava presagire l’imminente fine, a parte la incompresa presenza sul pavimento, dove abitualmente e forzatamente amava soffermarsi, di piccole macchie ematiche notate alcuni giorni precedenti, esattamente tra lunedì e martedì.

È morto in seguito ad una emorragia toracica interna, dopo averci insegnato alcune ultime cose fondamentali, malgrado tutto: l’accanimento terapeutico è perfettamente inutile; ha quasi preteso il muto rispetto, ma non di essere lasciato solo, nella ineluttabile fatalità che stava per accadere; il fisico invecchia con l’età, ma non il temperamento caratteriale istintivo; ogni fine, inclusa la propria, è percepita senza equivoci. E tutto questo non senza averci fatto comprendere la sua ultima sorprendente volontà: uscire in strada a vedere, sentire e odorare la vita. Quella che gli sarebbe piaciuta praticare e che solo raramente sperimentava, non per sua scelta o colpa, ma semplicemente perché così è stata per noi la sua breve vita, nonostante i suoi anni. A causa delle nostre severe ed egoistiche abitudini familiari, gli era stato sempre o quasi impedito di frequentare gli  altri suoi simili. Ma non se ne curava granché, anzi pareva non ne avvertisse il bisogno, poiché gli bastava quel poco che gli veniva offerto dalla nostra sincera e altalenante compagnia, soprattutto di Ruben, il terzogenito allora sedicenne, con il quale amava giocherellare e divertirsi, e che di tanto in tanto lo portava a fare dei brevi giri, con metodiche abitudini.

Mi stavo recando a Matera, per montare il film che avevo finito da poco di girare. Ero in auto tra Craco e il bivio Pisticci quando Leandro, il maggiore dei tre figli (che di anni ne aveva 25), mi ha informato telefonicamente delle sue condizioni.

“È a terra sdraiato, appare debole e molto affaticato, inoltre, cosa più grave, ha perso molto sangue dal naso e forse anche dalla bocca e una parte significativa del corpo è macchiato di rosso ematico. Credo che stia veramente male”.

“Cercate di stimolare una sua reazione – risposi – bagnatelo e chiamatelo per nome, scuotetelo emotivamente tramite l’udito e il contatto”.

Ho continuato alcune centinaia di metri, poi ho preso la decisione giusta, dovuta verso un carissimo amico. Quindi sono ritornato con immediatezza a casa, temendo il peggio dentro di me. E il timore misto a paura aveva il sopravvento sulla speranza, imponendosi con i tristi pensieri. Cinque minuti dopo un’altra chiamata sul telefonino. Era Ruben che voleva informarmi in maniera accorata.

“Papà, non sappiamo che fare. Non si muove. Come si chiama il nostro parente specialista di Nova Siri?”.

Il doloroso fastidio in me parve accentuarsi. Comunque ho aggiunto: “Il nome di mio cugino è Filippo. Chiamatelo subito. Io comunque sono già sulla via del ritorno”.

“Stai tornando a casa?!”.

“Si”, confermai.

“Si, papà, non avevamo dubbi”.

Appena arrivato, nel salire le scale ho chiamato l’amico Luciano, affinché si precipitasse da me con Pasquale, grande conoscitore e forse il maggiore esperto tursitano degli amici dell’uomo, per un consulto urgente.

“Ho bisogno del vostro aiuto”, dissi.

Parcheggiata l’auto, avvertii un pesante silenzio, come capitava da alcuni giorni, stranamente. I pensieri si fecero ancora più cupi. Come Leandro, Ruben e Rosa, che continuava nei mestieri di casa con non malcelata apprensione e mestizia, mi sono reso conto subitaneamente delle condizioni critiche e disperate di Ronni, posizionato non lontano dalla protettiva e confortevole sistemazione di legno compensato, di mio fratello Claudio, che ce l’aveva data in prestito. Troppo grande per Ronni, di dimensioni medio-piccole.

Nel parcheggiare l’automobile e poi con lo spegnimento del motore, era abituale che si accendessero in maniera subitanea i richiami altisonanti del nostro caro amico, uditi da tutto il paziente vicinato (che ringraziamo per la comprensione e la tolleranza). Smetteva solo dopo pochi minuti, con il saluto diretto sulla porta del balcone, quando dovevo comunicargli: “Non ho nulla per te”. Era quasi un gioco piacevole, avvertito da un udito superlativo e un odorato finissimo, che segnava il mio ritorno a casa, come quello di Leandro se usava l’auto, oppure se giungevano a piedi Rosa, Verdiana e Ruben, anche separatamente, non solo all’ora di pranzo o di sera; ma non di notte, giustamente, forse  perché anch’egli meritava il giusto riposo, tuttavia, a me piace pensare che avesse capito di non dovere disturbare il sonno del vicinato. Cambiava un poco il tono e lo stile, ma l’arrivo in lontananza dei temporali lo infastidiva parecchio, fino al timore di mesti presagi incontenibili, mitigati solo dalla nostra rassicurante presenza al suo sguardo, oppure un poco dalla nostra voce. A volte pareva ascoltare il richiamo in lontananza dei suoi simili, ma di rado ha accennato a rispondere, mentre in altri casi il suo lamento alto e forte e insistito, senza un perché apparente, ci faceva allarmare di malinconia inspiegabile, pur sapendo che si trattava soltanto del solito mutare delle condizioni atmosferiche verso il peggio.

Strano scoprire un giorno, ma era vero ed avvalorato dal dottore, chiamato apposta per lui, che avesse un’allergia alle lenticchie. All’inizio, infatti, gli causarono una emorragia gastrointestinale che lo tenne per quasi tre giorni tra la vita e la morte. Ma la crisi fu felicemente superata e da allora, per tutti gli anni che si sono succeduti, siamo stati ben attenti ad offrirgli i legumi.

Nell’ultimo anno avevamo notato appena un piccolo dimagrimento complessivo, tipico di chi, non più giovane, ha deciso di praticare da solo un’ottima dieta, poi ben sopportata, pur senza alterare le proprie buone abitudini e un inconfondibile stile di vita. Fino a giovedì era allegro e di buon’umore, con appetito e voglia di vivere, anche se, ripensandoci adesso, i riflessi istintivi, di gioco e di movimento, si erano appannati almeno un minimo, causati da una lieve ipoacusia, o forse anch’essa ne era una conseguenza, non saprei dire. Certo non era reattivo come nel passato anche recente, ma stare con lui era uno spasso di gioiosa vivacità, rilassante affettuosità e godibile tenerezza.

Ha convissuto con noi per circa undici anni (la nostra memoria vacilla di fronte al sincero e profondo dispiacere che ci provoca la sua dipartita improvvisa). Era arrivato d’inverno, durante le festività natalizie, dopo Capodanno, proprio come un dono atteso della Befana, con un gemello morto tragicamente, annegato nell’ampio balcone della nuova casa, nella quale eravamo andati ad abitare mesi prima, dall’11 luglio 1995. A nulla valsero i suoi disperati, insistiti e strazianti richiami giovanili lanciatici nel cuore della prima notte. Troppo tardi mi accorsi dell’incidente e solo al mattino ne portai a conoscenza l’intera famiglia. In seguito, complice una intesa perfetta, non c’è stato mai un netto o velato “ritorno” sull’accaduto, anche se una sottile vena malinconica ha sempre segnato la sua straordinaria faccia mite, bonaria, dotata, sicura e fedele, anche nei tanti momenti più lieti, allegri e felici del nostro duraturo legame, unico, esclusivo e irripetibile.

Una vita, la sua, spesa per noi con assoluta accettazione, edizione e coraggio, sopportata senza recriminazioni ed inganni nei rari momenti di dissenso, laddove si trattava di assecondare un suo desiderio normale e naturale. È stato casto, senza dubbio alcuno, e non ha avuto altre amicizie che il nostro solido rapporto; offrendoci costantemente affetto leale e incapace di tradire la nostra fiducia (se non una volta, quando ruppe alcune zanzariere e sembrò voler distruggere la piccola agenda telefonica, certo addebitabile all’esuberanza giovanile, sconfinata nel mancato rispetto delle regole, evidentemente da lui non  apprese nella totalità, anche per nostri limiti di insegnanti incerti). La lingua era storta verso l’esterno con l’occhio destro aperto, per il resto pareva dormisse, immobile.

Si, il caro e mai scordato Ronni aveva quattro zampe, ma non è mai stato solo un cane, era invece molto, ma molto di più, quel tutto che adesso ci manca e che avremmo voluto durasse miracolosamente almeno quanto la stessa esistenza dell’ultimo di noi. Si, gli animali hanno un’anima particolare, in grado di trasferirsi in chi li rispetta e ama, e un giorno non lontano non mi stupirei se lo scoprissimo, con il valore della scienza. Ancora adesso, mi sembra di rivederlo nel terrazzo, a volte lancio perfino una pallina o un rametto, pur sapendo che nessuno li riporterà indietro. E tuttavia, ogni volta fermo lo sguardo, sorrido e per un po’ aspetto, non so cosa. E poi mi trovo a domandarmi: Ronni, mio caro amico, dove sei? Abbaia ancora, ti sentirò. (Tursi, Natale 2012)

Salvatore Verde

* Scritto nel 2012, sei anni dopo il decesso, il file era poi scomparso a seguito di un incidente al pc, ma è stato nuovamente recuperato in questo periodo di Natale (2017).

Ronni

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