“Peraspina Perapoma” seconda silloge poetica di Antonio Petrocelli, attore di talento e scrittore

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L’albero è un imbuto/ che versa il sole/ nella terra.

Antonio Petrocelli

TURSI – “Di qua/ il confine…//… gli occhi a levante”,  versi che delimitano in apertura (Peraspina Perapoma) e chiusura (Esempio) del libro una trasparenza dell’incerto limite di appartenenza e una dolente prospettiva ultima, nella maturità di un percorso esistenziale e poetico, sempre autentico, delicato e forte al contempo, finanche tormentato e tenero nel suo totale disvelamento, ma senza arrendevolezze alla nostalgia, ai rimpianti e neppure ai sentimentalismi appena regressivi. Nell’universo poetico delineato dall’autore, si materializza un percorso ascensionale dentro l’immediatezza delle proprie viscere e nella più profonda vetta intellettuale del suo rapporto con il padre. In tal modo, facendo riemergere ricordi, visioni, parole, gesti, oggetti, addirittura pensieri e argomenti, che sono appartenuti  e cresciuti dentro di sé con la costante forza interiore di doversene separare, a  volte per sempre, ignorando, poi accettando e infine sublimando la sofferenza che ne deriva. Lo sguardo empatico e retrospettivo irrompe nella sostanza di una vita vissuta altrove già dall’adolescenza, ma senza la definitività anche naturale, se mai possibile, dell’oblio della memoria. Pur nella consapevolezza della propria collocazione nel mondo, prima o poi tutti si confrontano con l’eterno ritorno degli affetti più intimi, magari con un lungo atto d’amore esplicito e intenso. E allora la figura paterna, carica di simbolismi e di significati anche psicoanalitici, nella sovente irriducibile complessità del rapporto padre-figlio, a volte per eccesso d’ingombranza altre volte per difetto di inconsistenza, si pone essa stessa all’origine della sua (in)superabilità e, tuttavia, si ridimensiona privandosi di ogni ambiguità e si idealizza, ma non per questo si altera il processo ideale e storico del proprio vissuto e della verità oggettiva. 

Peraspina Perapoma (2019) è la seconda silloge poetica di Antonio Petrocelli e si avvale della incisiva, secca e colta prefazione di Andrea Di Consoli, che ascrive alla tradizione della poesia contadina la poetica petrocelliana, accentuando i riferimenti letterari ad Esiodo e ai poeti corregionali, “realista come Scotellaro, limpido come Sinisgalli, ctonio e oltretombale come Pierro”, mentre rivela e indica, a giusta ragione, che tutto il libro “è un dialogo elegiaco con il padre”. I riferimenti al mondo dei morti, alla memoria e al tempo perduto erano temi già presenti in Petrocelli, nello straordinario Garofani (2016), il suo debutto che è una densa e ispirata pubblicazione, anch’essa prefata da Di Consoli. Ma un robusto nucleo tematico e affettivo esalta il legame anche con i due romanzi precedenti, Volantini. Adesso tocca a me partire (2001) e Il caratterista Basilisco  del cinema Scaturchio (2010), nei quali l’autore è sempre e comunque chiamato a riflettere sulla propria essenza di uomo (di spettacolo). Prosa e poesia rivelano entrambe la forma del talento autentico di Petrocelli, che festeggia (il 18 settembre) i sessantasei anni, e accentuano il valore delle sue opere editoriali sedimentate, quattro in un ventennio, attraverso l’autenticità di un percorso che mai ha smesso di ricercare, con una inquietudine totalizzante e disincantata, senza mai cedere all’effimera gratificazione e all’arrendevole romanticheria, e neppure alla retorica della lucanità, tutte reazioni e manifestazioni emotive ritenute da lui realmente e virtualmente consolatorie, che mai perciò gli si addicono.

Petrocelli non finisce mai di stupire per intelligenza debordante, temperamento vigoroso, consapevolezza autentica, visionarietà necessaria, realismo disarmante, inquietudine non dissimulata, nella vita come nella professione, collocandosi così appieno sia tra i versatili caratteristi del cinema italiano con una carriera rispettabilissima, avendo lavorato con i maggiori cineasti italiani, sia tra i rari intellettuali lucani del nostro tempo, in grado di restituirci il senso vero del come eravamo e siamo, meglio, di cosa siamo diventati. E i due tratti distintivi, l’uomo di spettacolo e l’intellettuale, si (di)mostrano con coerenza e trasparenza nel segno profondo delle sue liriche, tutte “cinematografiche”, quasi ognuna potendola assimilare al soggetto/sceneggiatura di un corto. In fondo, neppure quando il caso predomina, la vita stessa mai è estranea o smette di influire sul nostro incedere e sulla creatività che ne scaturisce, quale che sia la forma della produzione. In tal senso, si badi alla struttura visiva delle molte poesie che potremmo dire “corti scritti in versi”: In fondo al campo, Il suono di una sirena, Sputando in faccia al sole (che contiene un doppio flashback, uno splendido esempio di ricordo di un ricordo), Mio padre torna, Il fiore di un’agave, Tu sei il balcone chiuso, Come farai Ninetta, Jus de pommes (Succo di mele), Figli di fatto. Alla fine, se ne ricava l’impressione di un insieme di film brevi, per la realizzazione di un mosaico, di un lungometraggio, che è molto di più delle singole parti che lo compongono. Una sceneggiatura in versi, quindi, nel montaggio finale del libro pubblicato, dalla quale emerge forte e tenero l’autore-poeta-regista della propria scrittura/memoria.

Il testo è compatto, ispirato, coerente, padroneggiato dalla prima all’ultima pagina, dall’inizio all’ultima scena, attraverso epifanie della storia (del cinema), dal (neo)realismo, alla diaristica, dai fenomeni sociali al viaggio introspettivo. Parallelamente procede la narrazione, dal ricordo alla rievocazione degli insegnamenti, dalla fatica del lavoro all’epopea dell’emigrazione, con i dialoghi/didascalie e i pensieri mai traditi, fino all’esperienza diretta della morte. Nella (in)consapevole rivelazione culturale e cinematografica dei versi, si potrebbe addirittura tentare di rintracciare quasi in ogni singola composizione una libera quanto suggestiva illusione/allusione a tanto buon  cinema italiano guardato con rispetto, stima e amore. Ad esempio: Michelangelo Antonioni (Ti venivo incontro), Giuseppe De Santis (Qualcuno cammina), Vittorio De Sica (Egidio di Senise), Federico Fellini (Si parla anche troppo), Ermanno Olmi (La masseria), Pier Paolo Pasolini (Cammino sulla mia frustrazione), Franco Piavoli (Nella strada), Francesco Rosi (Partire di notte), Roberto Rossellini (Il suono di una sirena), Ettore Scola e Paolo e Vittorio Taviani (Chi vuole trovarti). E si potrebbe continuare oltre, nella ricerca di echi e riverberi di una personalissima e trasparente armonia audio-visiva.

Dunque, tutto nasce e si nutre del ritorno alle origini, in nome del padre. Né può essere casuale che in Peraspina Perapoma le parole più citate siano “terra”, ben tredici volte, e subito dopo “ulivo/olive”, seguite da “silenzio/solitudine”, “arancio/arance” e “bara/crepare/morte”. La geografia della parabola esistenziale paterna arriva fino alla Svizzera, partendo da Taranto, allora con il treno Crotone-Milano, mentre mai si può dimenticare la Valdagri, Senise, il Cavone e Andriace (la frazione di Montalbano Jonico, Matera), lasciandosi cullare da soli tre nomi: la sorella Ninetta, l’amico Egidio e san Rocco. Pensieri, parole, sogni e visioni in tutte le liriche si offrono ininterrottamente al lettore con struggimento e amore, parola non a  caso mai citata.

Un discorso ininterrotto con il padre, ripreso a distanza di decenni, per chiarire il senso vertiginoso di un quasi non rapporto, perchè troppo presto divaricatosi. Divisa di fatto e idealmente in quattro parti, la raccolta di 59 poesie, rimanda alla elaborazione circolare dell’essenza del legame: il padre che parla al figlio, il figlio che lo rievoca e lo indica in vita, il figlio che si rivolge al padre. Più che il neorealismo italiano, qui anche esaltato nella sua minuziosa trasfigurazione meridionale, si eleva un umanissimo sentire universale, intimista e psicoanalitico, proprio quando tutti siamo chiamati a fare un bilancio esistenziale di quello che resta dopo che quasi tutto è passato. E talvolta sopravvive qualcosa che va oltre la personale parabola, ovvero, l’unica cosa che conti: la traccia da noi lasciata, le opere (di bene), il valore della vita appreso e trasmesso e, raramente, la poesia, quella vera, di un poeta.

Salvatore Verde

Antonio Petrocelli, Peraspina Perapoma, Treditre Editori, 2019, edizione limitata numerata, 500 copie, Euro 15,00

Biografia

Nato il 18 settembre 1953 a Montalbano Jonico (Matera), Antonio Petrocelli si è trasferito quattordicenne a Firenze dove ha studiato, prima  al Liceo Classico Galileo e poi alla Facoltà di Lettere dell’Università, laureandosi con una tesi su Lotte per la terra e riforma agraria in un comune del Metapontino 1943/1953. Attore professionista, dal 1976, ha debuttato con il Teatro della Convenzione del capoluogo toscano. Attivo e noto in teatro e cabaret (anche come autore), è soprattutto un volto familiare del cinema italiano e uno straordinario caratterista di assoluto valore, impegnato, scrupoloso, serio, talentuoso, diretto. Dal 1979, ha recitato in oltre cinquanta film, alcuni di enorme successo, sempre con tasselli interpretativi brillanti e con  apparizioni talvolta fulminanti, essendo dotato di simpatia immediata e contagiosa. E se all’inizio è stato utilizzato per lo più in commedie, ma non solo, ha avuto modo di distinguersi anche in ruoli drammatici notevoli, sia pure in una costanza di parti brevissime, tranne lodevoli eccezioni.

La sua dignitosissima carriera si è sviluppata in una variegata collaborazione attoriale, soprattutto con grandi autori  e importanti registi contemporanei. Li elenchiamo: Marco Bellocchio (Gli occhi, la bocca, 1982); Francesco Nuti, inun rapporto proficuo e duraturo (Caruso Pascosky, 1988; Willy Signori, 1989; Donne con le gonne, 1991; Il signor Quindicipalle, 1998; Caruso, zero in condotta, 2001); Giuseppe Bertolucci (Effetti personali, 1983; Segreti segreti, 1984; Strana la vita, 1987), Carlo Mazzacurati (Notte italiana, 1987; Il prete bello, 1989; Un’altra vita, 1992; Vesna va veloce, 1996); Nanni Moretti (Palombella rossa, 1989; Caro diario, 1993; La stanza del figlio, 2001; Il caimano, 2006), Daniele Luchetti (Domani accadrà, 1987; Il portaborse, 1991; La scuola, 1995), Enzo Monteleone(Ormai è fatta!, 1999; El Alamein – La linea del fuoco, 2002), Maurizio Ponzi (Io Chiara e lo Scuro, 1982; Il tenente dei carabinieri, 1986); il premio Oscar Gabriele Salvatores (Sud, 1993), Antonio Albanese (Un uomo d’acqua dolce, 1996), Francesco Calogero (Ribelli per caso, 2001), Mimmo Calopresti (La seconda volta, 1995), Liliana Cavani (Dove siete? Io sono qui, 1993), Guido Chiesa (Il partigiano Jonny, 2000), Marco Tullio Giordana(Pasolini, un delitto italiano, 1995), Pasquale Pozzessere (Testimone a rischio, 1997), Franco Rossi (Michele alla guerra,1994), Vincenzo Terracciano (Metronotte, 2000), Giovanni Veronesi (Il barbiere di Rio, 1996), Nina Di Majo (Matrimoni e altri disastri, 2010). Ma ha lavorato anche con Pierfrancesco Campanella, Elie Chouraqui, Marco Daffra, Giovanni Fago, Francesco Massaro, Edoardo Palma, Angelo Pasquini, Denis Rabaglia, Antonio Tibaldi e Ruggero Miti, con il quale tutto iniziò nel mondo della celluloide(Maschio, femmina, fiore, frutto, 1979).

Di pari passo è cresciuto il suo impegno in televisione, in particolare nelle reti Rai e Mediaset, citiamo Il prete di Caltagirone (1980), la mini serie Don Luigi Sturzo (1981), il programma tv Prossimamente non stop (1987), la miniserie Felipe ha gli occhi azzurri (1991), Valeria medico legale (2000), Una donna per amico 3 (2001), Don Matteo (2001), Imperium – Augusto (2003), la sitcom Il mammo (2004), Distretto di polizia (2005), La provinciale (2005), Mafalda di Savoia (2006) Quo Vadis, Baby (2008) e I Cesaroni (2006-2008).  Ma il lavoro più recente è ancora su Sky, nella serie TV The New Pope del premio Oscar Paolo Sorrentino, di prossima programmazione.

Curiosamente non si è palesata ancora una meritoria e soddisfacente relazione professionale con la terra di Basilicata, se non negli ultimi anni e attraverso un paio di commedie garbate (Un paese quasi perfetto, 2016, regia di Massimo Gaudioso, e Bentornato Presidente, 2019, dei giovani registi di Matera Giancarlo Fontana e Giuseppe Stasi) e il Premio alla Carriera a Sant’Angelo le Fratte (Potenza), assegnatogli dalla Rassegna cinematografica di cortometraggi lucani Corti in Cantina settima edizione 2018, direttore artistico Giuseppe Marco Albano, giovane bravo regista di Bernalda (MT). All’inverso, è sicuramente lodevole l’evidente apporto di Petrocelli, con alcune sue improvvisazioni sui set, amabilmente incluse nelle loro opere dai registi, quando ha voluto e potuto inserire nei film di Giuseppe Bertolucci (Effetti personali, 1983)  e di Enzo Monteleone (Ormai è fatta!, 1999) la memoria, rispettivamente, in forma grottesca e drammatica delle proprie radici.

Petrocelli è anche autore e regista del cortometraggio Il corpo del Che, presentato alla Mostra Cinematografica di Venezia, sezione Finestra sulle immagini (1996), e vincitore del Premio Solinas, sezione Racconto cinematografico (1997), con il soggetto All’alba il pane bianco, scritto con Franco Girardet. Inoltre, per l’Editrice Archivia, ha curato la traduzione dal dialetto tursitano della raccolta di poesie Il bacio di Mezzogiorno (2008) di Albino Pierro. Garofani (2016, finalista Premio Andronico) e Peraspina Perapoma (2019) segnano il suo intenso esordio e la struggente conferma come poeta, entrambe le pubblicazioni sono prefate con il riconosciuto acume da Andrea Di Consoli. Ma un robusto fiume d’ispirazione li collega anche ai due romanzi precedenti, Volantini. Adesso tocca a me partire (2001, Premio Libernauta 2004) e Il caratterista Basilisco  del cinema Scaturchio (2010), di chiara impronta e riuscita evocazione autobiografica. Vive con la famiglia a San Casciano Val di Pesa, nel Chianti. Il Mgff, in agosto a Catanzaro, ovvero il Magna Graecia Film Festival, XVI edizione 2019, direttore artistico Gianvito Casadonte, gli ha tributato il Libro d’oro alla carriera.

Salvatore Verde

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