Tursi, cronotopo pierriano. Per un’edizione del Pierro drammaturgo e narratore, di Giorgio Delia

Cultura
Il prof. Giorgio Delia*

Se è vero, come ha sostenuto Michel Foucault, che il Novecento è stato «l’époque de l’espace», in che modo Pierro ha utilizzato tale coordinata per meglio inquadrare il suo tempo? A riconsiderare le pagine critiche sull’argomento, si nota quanto queste siano state orientate esclusivamente a lumeggiare la punta più visibile, la mitologia del paese, lasciando inesplorati alcuni segmenti e soprattutto la base. Inoltre, si ritiene che, solo tenendo in debito conto la dimensione temporale (di «tempo come quarta dimensione dello spazio», quindi «cronotopo», conformemente al sempre fertilissimo insegnamento di Bachtin) che lo spazio pierriano non apparirà nella sua mera natura descrittivo-illustrativa e, quello che qui più importa, si profilerà più nitida (ancora lo studioso russo) «l’immagine dell’uomo» (precisamente di quella varia umanità che l’autore ha rappresentato nell’opera), nella sua condizione esistenziale, sociale e politica. Per fare ciò è di straordinaria rilevanza una lettura strutturale dell’opera. Si sottolinea anche di quella parte nella quale Tursi ancora non c’era, o era diversamente. Si dice delle esperienze in lingua e, più segnatamente, delle prose (delle quali urgerebbe una sistemazione filologicamente accurata ove fosse una maggiore attenzione da parte dei mecenati e dei faccendieri della politica culturale di Matera 2019).

In generale, nel tempo, in stretta relazione con la visione del mondo, Pierro non solo ha scelto una diversa realtà da rappresentare ma anche un modo diverso di rappresentare la medesima realtà; ha profilato lo sfondo di ambienti e paesaggi attraverso pochi tratti, quelli essenziali ai fini dell’azione narrativa dei personaggi, più che con minuziose descrizioni fine a se stesse; accanto ai prediletti spazî esterni (ove, fra l’altro, meglio ha trovato espressione la dialettica io-natura), ha delineato, non meno significativi, quelli interni, vissuti a porte o a occhi chiusi (spesso animati da visioni spettrali), con la specifica che in questi vi si dovrà riconoscere la motivazione biografica della temuta cecità, ancor prima di quella filosofica, psicoanalitica o esistenzialistica (saranno, a titolo di esempio, quello povero e allucinato di Luce che si spense, quello borghese del dramma, la grotta di Il sogno di un sapiente, la camera della casa paterna di U mamone).

In particolare, quando l’autore nella sua opera parla di Tursi, il suo paese, si riferisce a una realtà che non è fissa ma, dotata di una pregnanza polisemica, è declinata dinamicamente nella diacronia in modi molto diversi. A un’osservazione più attenta del decorso attraverso il quale l’autore, artisticamente, con la sua scrittura, si è riappropriato e ha dato senso a detto tempospazio  (momenti, luoghi, personaggi), si stagliano nette le tracce di continuità, ma anche le fratture. Già dai toni si nota che, a quelli freddi e distaccati degli inizî, seguitano i liricamente più partecipati e accorati, fino a quelli grotteschi e surreali delle atmosfere di certi poemetti della maturità.

In sintesi. Tursi, in quanto cronotopo pierriano, è la cittadina sudlucana, nella sua effettiva concretezza geostorica, terra nativa e sede anagrafica, troppo presto luogo della privazione e del lutto, poi della diaspora e dell’esilio, quindi simbolo della condizione dell’esser(ci) smarriti nel mondo, piccola patria svanita con l’infanzia (Heimat). Da qui, spazio fisico e metafisico, è il centro a partire dal quale tentare di (ri)costruire la propria identità individuale e collettiva. Fonte e specchio delle emozioni più stringenti, è il nodo attorno al quale tessere le relazioni fra il sé e l’altro. Orizzonte di elezione e zenit della (psico)geografia personale, nella parte più decisiva di tale esperienza, si fa sempre più solo paesaggio della mente, evocabile più che descritto, stato d’animo, fruibile tramite le risonanze emotive, oltre l’ambiente e il panorama offerti alla percezione e alla cognizione di uno sguardo esterno. In coerenza di ciò, è il punto d’arrivo ove per volontà testamentaria far (ri)posare le spoglie mortali e, quasi a risarcimento, circolarmente, «grembo materno» (giusta l’espressione dei Sepolcri foscoliani), luogo imperituro dell’anima.

Da che Pierro non è più, Madre benevola, prima, in un abbraccio corale, ha accolto quel suo «figliol prodigo» (conforme alla definizione che l’autore dà di sé in Lucania mia), poi, in maniera istituzionale, gli ha tributato l’onore dell’appositivo nella toponomastica ufficiale (ora Tursi – Città di Pierro), a sancire irrevocabilmente la corrispondenza biunivoca fra il poeta e il suo paese. Tanto che oggi, riesce usuale l’identificazione antonomastica per la quale Pierro (vero genius loci), molto al di là dell’àmbito delimitato, è a buon diritto il Tursitano.

Il passaggio non è stato né facile, né immediato. Sicuramente sarebbe molto più arduo da comprendere se non si tenesse conto dei momenti e degli incontri che lo hanno rischiarato.

Altro aspetto da demistificare è la falsa credenza che lo vorrebbe ‘poeta senza storia’. Lungi da ogni eccesso deterministico (sia pure quello derivante da una visione idealistico-crociana), appare chiaramente che, fino a un certo punto della sua biografia, Pierro è stato ‘figlio del suo tempo’, dentro il vortice degli eventi della Storia. Si destituisce così ogni fondamento alla tesi che lo vorrebbe ripiegato su una prospettiva temporale nella quale il presente e il futuro risulterebbero assenti rispetto al passato. In base a tale convincimento, il poeta avrebbe fatto di questo il punto di vista per leggere la realtà. Proprio dai testi in prosa, si possono trarre indicazioni per ribaltare tale opinione. C’è stata infatti una fase nella quale, nella sua esperienza, le tradizioni, i ricordi e la nostalgia, che tanto peso avranno nella sua opera in dialetto, hanno contato meno non si dice rispetto alle idee di progresso, ma almeno a certe speranze e utopie.

A ripercorrere analiticamente le tappe più decisive dell’opera (ma sarebbe agevolmente provabile anche della vita) continua è l’attrazione, già costitutiva nell’atteggiamento tardo-romantico (si pensi a Flaubert, Baudelaire, Carducci), più che per una meta (reale o fantastica), per l’andare tout court, lontano (nello spazio e/o nel tempo), alla perenne ricerca del centro conosciuto e perduto. A lungo, quasi estraneo a sé e agli altri, Pierro ha esercitato l’arte della fuga, non solo da quell’‘angolo di Terra’ di volta in volta abitato. Oltre gli anni del regime, al di là dei testi ospitati su «Oltremare» (per progetto votati all’‘altrove’), quando si è votato ad altri ‘patroni’ (Contini fa il nome di Proust), questa è diventata più raffinata e forse anche più gratificante, con traguardo definitivo nella ‘terra del ricordo’. Non a caso, nell’intervista concessa a Giorgio Varanini, ha affermato: «La vita che trascorsi da fanciullo a Tursi è un qualcosa di concluso e perfetto, consegnato all’archivio della memoria, evocabile in virtù di poesia ma irripetibile».

A uno sguardo d’insieme, netto appare il divario fra lo scrittore prima maniera, con la finzione dei primitivi, estetizzante, populistica e regressiva, cara a certa mistica dannunziano-fascista, e quello maturo con la riscoperta del suo ‘villaggio’ lucano. Complici gli aspetti storico-politici, in relazione e in opposizione al precedente modo di concepire i fini del mondo e il ruolo dell’uomo in esso, provato dal senso di vuoto e di smarrimento, ha maturato ciò che gli antropologi chiamano ‘crisi del luogo’, a dimostrazione che Levi e de Martino non erano passati invano. Se il Cristo dell’ebreo torinese Carlo Levi (esperienza-limite di un viaggio al contrario rispetto a quello pierriano, dal centro alla periferia) gli ha fornito gli strumenti per rileggere non solo lo spazio dal quale era fuggito, ma anche la vicenda storica appena lasciata alle spalle, è con Ernesto de Martino che è arrivato a lumeggiare meglio i fondamenti antropologici e filosofici (sintonizzando nella stessa linea di mira occhio e orecchio, cuore e mente) indispensabili per comprendere l’umanità derelitta delle genti lucane e del Sud.

Per una di quelle singolari alee di cui è ricca un’esistenza, nel leggere le prime esperienze letterarie, a lungo oggetto di una (in)volontaria destituzione di valore (in primis per responsabilità del loro artefice), si ha di frequente il presentimento di assistere a quello che da Freud in poi si è chiamato ‘ritorno del rimosso’. Infatti, i contenuti psichici (luoghi, vicende, personaggi, ricordi, linguaggi), precisamente quelli di un deplacé traumatizzato dalla ‘perdita dell’infanzia’ (morte della madre, assenza del padre, paura della cecità…), emarginati e quasi compressi dalla coscienza, riaffiorano sotto forma di fantasmagorie e rappresentazioni oniriche. Si pensi alla squallida descrizione che si legge nell’incipit di Don Nicola: «Il paese, lugubre e selvaggio nell’aspetto…» (nel dattiloscritto «Il Paese di ***, lucubre e selvaggio nell’aspetto…»). Sia pure attraverso «il filtro letterario», come per altri versi in maniera convincente ha mostrato Mario Marti, sono delineati i tratti del paesaggio di Tursi (altri particolari saranno aggiunti nel corso della narrazione, fra questi, le «cantine scavate laggiù a guisa di grotte»), la medesima che la poesia successiva ha illustrato quasi fosse il ‘paradiso perduto’ dell’autore, ma che qui, non più che un semplice fondale, innominata (e per questo relegata alla natura di non-luogo), appare lombrosianamente come «Nido prediletto dell’ipocondria».

Il rimosso (questa tursitanità nascosta) in principio torna trasfigurato nel canto di una voce spezzata come nella vicenda della protagonista di Luce che si spense, la diciottenne alla quale l’autore ha dato nome di Silene, variante certamente non tursitana di Selene (chiaramente nomen omen, dato che alla fine diventa un tutt’uno con la «luce lunare» che la ‘illumina’: quasi a richiamare l’antico motivo mitologico che la vedeva sorella più ‘spenta’ di Eos, l’Aurora, e di Elios, il Sole).

Quando, fra determinismo e ricerca della libertà, immanente il male nella storia, ha prefigurato realtà apocalittiche, dis-topie, dando voce a ciò che ontologicamente è phantasma (esplicito in tal senso Il sogno del sapiente), o ha ambientato la vicenda in spazî altri (oltre che in tempi distanti e imprecisati), sospesi fra reale e immaginario, non è ovvio che lo abbia fatto per un barbarismo di maniera, o un bovarismo fine a se stesso. In questi casi, quando non ha voluto (o non ha potuto) calarsi nell’effettività concreta del qui e ora, più probabilmente, continuando a usare la terminologia di Foucault, si è trattato di un’«hétérotopie non pas d’illusion mais de compensation». Da qui, certo esotismo (top)onomastico (oltre a Silene, Waldy, Sor Antonio, Kitty…, la savana africana, un’alta montagna dell’Himalaya, Olmutz nella Germania preluterana…).

A questa altezza dell’argomentazione, tornerebbe utile come risposta il distinguo del filosofo francese: «Les utopies consolent: c’est qui si elles n’ont pas de lieu réel, elles s’épanouissent pourtant dans un espace merveilleux et lisse; elles ouvrent des cités aux vastes avenues, des jardins bien plantés, des pays faciles, même si leur accès est chimérique. Les hétérotopies inquiètent, sans doute parce qu’elles minent secrètement le langage, parce qu’elles empêchent de nommer ceci et cela […]. C’est pourquoi les utopies permettent les fables et les discours […]; les heterotopies […] dessèchent le propos […]».

In coda, come non chiedersi se le U-topie/U-cronie, progressive o regressive (sempre sorrette da motivazioni ideologico-politiche cogenti), siano delle fughe dalla storia alla ricerca di un presente diverso e di un contesto storico-sociale ‘altro’.

Finiti i fasti del regime, archiviate le eterotopie suggerite dalle poetiche allora imperanti, nel dopoguerra, in uno zeitgeist radicalmente mutato, si assiste a un progressivo cambiamento di segno nella concezione dei luoghi. Roma (la città che più di ogni altra era stata al centro di quei fasti,  già fondale di I frutti della menzogna), proprio mentre si avvia a essere lo spazio dove il poeta vive e lavora, abitualmente, a parti rovesciate rispetto all’Ovidio relegato a Tomi (Tristia, III 12), appare sempre più come una terra inospitale, desolante, con crudo realismo vissuta come «città d’esilio» (stando alla poesia omonima, in lingua; ma non diversamente in dialetto, nell’ultima strofa di Nda stu iurne d’i morte, o nella seconda di Le porte scritte ’nfaccia), nella quale sempre più insistentemente, col passare degli anni, si agitano «inetti» come Sor Antonio, sinistre figure, «morte-accise» (‘fantasma’), «macciòciue» (‘fantoccio’), «màscre» (‘maschera’). Così, al mondo dei vasti scenarî, apparso in tutta la sua cruda e amara assurdità, antepone quello più marginale, ma anche più leggibile, non toccato dai grandi conflitti della storia (le ingiustizie, la guerra), il medesimo che, meglio focalizzato, sarà reso più intellegibile grazie al dialetto. È seguendo un siffatto percorso che Pierro (come alcuni autori maggiori del secolo scorso) conquista l’attenzione dei lettori non dal centro (Roma, la lingua), ma da una posizione laterale, forse la più periferica delle possibili.

Per contrappunto, gli approdi della Lucania prima (si pensi a quella dell’accorato «grido» Lucania mia) e di Tursi poi (come nell’explicit di A Carnuère), proprio quando ormai fisicamente più distanti perché esperiti meno direttamente, alternativi a quello reale, sognati e fantasticati, sono sempre più il «Paradiso» (in dialetto spesso in rima con «paise») che il poeta ‘vede’ e anima nei processi immaginativi della sua memoria con i colori dolci, soavi e struggenti della nostalgia.

Naufragate le utopie volte a creare uno spazio celeste sulla terra, in una società sempre più individualista edificata sulle macerie del senso di appartenenza a una comunità, tornare indietro al fine di recuperare la memoria di un luogo o di un tempo, cercare quello che Zygmunt Bauman chiama «retrotopia», può rappresentare la meta più solida ove realizzare il proprio desiderio di sicurezza e di libertà in un mondo senza più certezze, orfano delle speranze (chiaramente, come in tutte le prospettive retrotopiche, quale consolatorio, rassicurante risarcimento rispetto alla condizione esistenziale dell’hic et nunc).

A partire da Mia madre passava (1955), Pierro ha dato prova di come fosse possibile vivere e coniugare il suo tempo attraverso la riappropriazione del suo spazio: da allora la vicenda personale e letteraria più che realizzarsi in un tempo esterno, ha avuto un luogo attraverso il quale leggere il divenire, il suo villaggio, quello dov’era nato, quello che, oltre le macerie della Storia, preservava intatte le tracce (se non fisiche, mnestiche) tramite le quali ricostruire i cardini e i rapporti di scala cartografici di una personalissima psicogeografia (toponimi, odonimi, antroponimi compresi).

Da quel traguardo, Pierro, sradicato dal ‘villaggio’ (nel valore demartiniano) e confinato lontano da quel tutto che, con Dante, era il suo «paese sincero» (non a caso, sulla scorta di Prima di parte, l’eziogenesi della sua poiesi dialettale viene da lui spiegata a partire dal «senso quasi angoscioso del distacco»), è stato più volte tentato dalla cupiditas redeundi in patriam (Ci uéra turnè è uno dei suoi titoli). Spaesato e lacerato dalla separazione e dalla distanza, sapeva benissimo però che se fosse ‘tornato’ per guarire la maladie du pays, certamente, come gli antropologi insegnano (si pensi a Vito Teti di Terra inquieta), ne avrebbe perso quel sentimento dolceamaro che ha nome nostalgia. Quasi a fornire materia per supportare quella tesi dei sociologi secondo la quale «la nostalgia è soltanto uno dei membri della vasta famiglia delle relazioni affettive con un “altrove”». A riprova del fatto che questo suo cronotopo, ‘iterabile’, creato per ‘tornarci’ fantasticamente con la ‘memoria innamorata’, non fosse coincidente con quello realmente esistente, quindi (sempre nei termini di Bauman) non ‘reiterabile’ in quanto tale, nello status quo, potrebbe bastare la dichiarazione contenuta nell’intervista a Ugo De Vita, l’ultima: «Non intendo tornare a Tursi. Non ho mai pensato seriamente di stabilirmi nella mia terra perché è diversa da come la immagino, ci torneranno le mie ossa».

Autore ormai maturo, specie quello dei poemetti, assati saldamente nel baricentro di una Tursi umile ed emarginata, attraverso il mito della ‘terra del ricordo’ Pierro invera la propria patria (o matria) poetica, a un tempo scoperta e inventata (ritrovata certamente perché abitava già in lui). Elaborato lo stacco, dall’«archivio della memoria», finalmente emendata da ogni trauma, può rievocare la sua Tursi (a Giorgio Varanini confida: «Sono, in questo, simile al mio filosofo, Kant, che con la potenza del suo pensiero seppe indagare i poteri e i limiti della ragione umana senza allontanarsi da Königsberg»). Con alcuni versi di Pessoa (in epigrafe dell’«agenda del 1975», ora in Poesie per il 1983, si legge: «Dal mio villaggio, / io vedo quanto / dalla terra si / può vedere / dell’Universo»), fa sì che fosse la chiave per leggere in profondità se stesso e il mondo.

Lungo il percorso, una lenta e profonda riappropriazione simbolica del rimosso: l’universo di Tursi (e con esso una dimensione diversa dell’identità, individuale e collettiva). Un ‘ritorno’ felice e armonioso, nel tempo come nello spazio. Un passo indietro per farne due avanti, in direzione di una ‘vita nuova’, meno alienata, più autentica, al postutto pacificata con quell’io più remoto (‘trapassato’). Con questo, persone, oggetti, vicende, luoghi, miti, riti, situazioni, atmosfere e, non ultimo, oltre le latenti, non episodiche tracce precorse, in maniera esplicitamente patente, il dialetto.

Non senza una dose di disillusione, come in tutte le liturgie dei nostoi, reso certo che quello che cercava nel paese da cui era partito, già altre volte rimpianto, era irrimediabilmente perduto, prescindendo dalla materialità del luogo, decise di ‘abitare’ quel mondo sopravvissuto intatto nella geografia della sua interiorità, da lui ‘salvato’ con la lingua. Quella che aveva ripreso a parlargli dentro, a usarlo (senza che l’io del poeta sapesse, forse), il tursitano: parole e immagini sorgive che, dalle profonde scaturigini dell’essere (individuale e collettivo), chiedevano di esistere, finalmente, oggettivate nella scrittura. Quel dialetto era, letteralmente, una ‘ripartenza’ (giusta la protasi della nuova poiesi: Prima di parte). La spiegazione razionale di questo suo ulteriore ‘cominciamento’ non è diversa da quella data da Dante per il volgare (Vn XIX): «Allora dico che la mia lingua parlò quasi come per se stessa mossa, e disse». Era una palingenesi. Quel che più conta non più in solitario, ma confortata da non occasionali compagni di viaggio, in primis Mario Dell’Arco. D’altro canto, come comprendere il dantismo pierriano (dal mitologema del «paese sincero» alla rima «paise» / «paravise») senza partire dall’incontro con uomini come Giorgio Petrocchi e Mario Marti, così come il diverso valore attribuito alla classicità, assai distante da quello dianzi osannato dal regime,  senza l’apporto decisivo di Tommaso Fiore (beninteso lo studioso di Virgilio più che il profeta della lotta e del meridionalismo). È così che in breve tempo, in modo febbrile (fabbrile), vedono la luce i testi che confluiranno nel trittico metapontino (e non solo).

Ecco, affrancandosi sempre più dalla fisicità di ciò che è esterno, pone in essere l’ulteriore avanzamento in direzione di una spazialità interna, metafisica: dal luogo come lingua alla lingua come luogo. Da qui (parafrasando Wittgenstein), ‘i limiti del suo dialetto sono stati i limiti del suo mondo’. L’uso di tale strumento linguistico ha rappresentato l’abbrivio migliore per dare voce a un’umanità diversa, facendo a meno di tante sovrastrutture culturali che spesso rendevano improbabili (non solo per difetto di verosimiglianza) il portato narrativo. È soprattutto per tale tramite se Pierro (ricalcando un noto passo di Rainer Maria Rilke), a poco a poco, ha ricomposto in sé il luogo della sua origine, per rinascervi, di nuovo, per sempre, maturando (per dirla con Blumenberg) un suo modo di leggere e interpretare non solo ‘il mondo dei libri’ ma anche ‘il libro del mondo’. L’oltre che aveva cercato a lungo fuori di sé, eccolo concretizzato rientrando in sé («recede in te ipsum quantum potes», ammoniva parenetico Seneca Ep. I 7.8), in una sua particolarissima noosfera. Per questo, nell’intervista concessa a Ugo De Vita, potrà dire: «Tursi è un luogo di memoria, un pensiero. […] La Tursi che racconto non esiste più. […] È dentro di me, si fa parola». Più epigraficamente: «Tursi è la mia poesia».

È evidente che il dialetto è stato per Pierro l’estrema e la più decisiva delle sue esperienze letterarie, la più distante rispetto non solo alla lingua, ma soprattutto all’ideologia che sorreggeva quelle prime prove (non era stato forse il regime a pretendere di ‘estirpare la malerba dialettale’?), di fatto la più sostanziale (vale ricordare che ‘sostanza’ è alla lettera ‘ciò che sta sotto’) e consustanziale a quel mondo (interiore) che, a partire da Mia madre passava, aveva deciso di rappresentare, sinolo di materia e forma. Oltre quella palingenesi, il cambio di passo, esistenziale, prima che di poetica, di contenuti e di stile, lo stesso che, per successive catabasi, dagli ‘spazî senza luogo’ di molte delle prime prove narrative, dalla rimozione all’inizio di Don Nicola, l’avrebbe fatto approdare, testimone oggimai riconciliato con il luogo delle proprie origini, alla sua Tursi e al suo dialetto (1960). Il tursitano che parlava in lui trovava finalmente espressione diretta e convinta. Nient’altro che la «parlèta frisca di paise» celebrata sin dalla poesia d’esordio (nella sua definizione, una sorta di «nuntio vobis gaudium magnum»), precisamente «la lingua del tempo perduto» (nell’intervista con De Vita), quella che nella biografia letteraria invera l’ennesimo suo dies natalis, nei termini di una biblica risurrezione: «Vinése a què, / v’àgghie grapute i porte» (è il ‘bando’ in esergo alla prima raccolta, ’A terra d’u ricorde).

Per il tratto decisivo dell’esistenza di Pierro, ‘lo spazio del linguaggio’ (quel medesimo che, nei termini foucaultiani, è giunto a lui chiedendo di parlare, prendendo corpo nella scrittura attraverso la poiesi) è stato il luogo più sicuro, la dimora a partire dalla quale ridare senso al proprio sé, l’arca ospitale ove ripararsi dai naufragi, la base teoretica attraverso la quale rendere intellegibile l’«ampia sintassi del mondo». Da quel punto, scrivere (come nel modello omerico fondativo della letteratura occidentale), anche per Pierro, è stato sinonimo di «ritornare, risalire alle origini, riappropriarsi del primo momento». Ritrovata nell’idioma materno la sua identità e la sua appartenenza  (più vere perché discendenti da una scelta libera e personale), a uno a uno, intinti nella saudade della Tursi della sua giovinezza, con amor de lohn, il poeta ha riscoperto ‘endofasicamente’ i suoni dell’arcaica parlata (quel dialetto del quale, come espresso nel colloquio con Pino Aprile, gli era stato impedito l’uso; il medesimo che rimarrà leggibile qua e là, in controluce, tra le forme e i costrutti del suo italiano). Con essi, per dirla con Eugen Coseriu, ha costruito una diversa «immagine del mondo» e ha trovato la misura per attribuire il giusto valore alle cose e alle esperienze, per fare ordine nella realtà esterna e interna al suo io. Con quei medesimi ha maturato la propria pienezza espressiva. In questo modo egli, che continuerà a vivere nella propria lingua come uno straniero (a riusare la felice immagine di Deleuze e Guattari), ha sancito il primato del dialetto, originariamente mezzo espressivo non di poeti e filosofi, ma di umili bifolchi («sti paruuèlle méje di zaccuèe» le chiama in A Tommaso Fiore), preservandolo e tutelandolo quale bene immateriale da consegnare alle generazioni a venire, nella consapevolezza di farne materia di una letteratura non minore. Con i temi del dolore, della violenza, della follia, ma anche dell’amore e della precarietà dell’esserci, con un diuturno esercizio dello stile atto ad affinare lo strumento espressivo e renderlo sempre più adeguato a quelle universalità, ecco compiersi un ulteriore scatto. Questo, sicuramente secondato da lettori come Contini e Folena, fonda una diversa idea di poesia (e dell’uso del dialetto che con essa diventa un tutt’uno), lontana da una finalità pratica, vista come un’esperienza preminente, totalizzante, assoluta.

Quello che per decennî aveva cercato ‘in alto’, per il tramite di una lingua letteraria talvolta stinta e consunta, lo trovava finalmente ‘in basso’ in un dialetto che, proprio per la virgineità dei suoi segni, rendeva il massimo di potenza espressiva e di energia semantica. Conta sottolineare che quel riavvicinamento dava voce ai «Pòuri cristieni», centro (anche fisicamente) della poesia bandiera della nuova stagione, ’A Ravatèna; per di più comportava una rivoluzione sul piano antropologico allo scopo di meglio esprimere la condizione umana (a un tempo, particolare e universale), partendo dal dramma della creaturale finitudine dell’essere uomo. Quel mezzo espressivo si faceva scrigno (pierrianamente «’a cascittèlla») per preservare intatte «i cose cchiù belle». L’apologia di queste diventava un tutt’uno con la riscoperta del dialetto, per la quale, al netto delle pur validissime argomentazioni di carattere socio-linguistico-letterarie, forse, non sono state messe nella giusta evidenza le connotazioni che quella implicava sul piano etico-religioso, di una religiosità equidistante fra quella ‘primitiva’, non ancora ritualizzata (sicuramente tutta pierriana, ma affine  a quella di certe correnti della Chiesa preconciliare) e quella della ritualità (a cominciare dalle più solenni della Pasqua e del Natale) e dei luoghi del sacro: i conventi, le chiese, la cattedrale, i santi, la Madonna di Anglona.

Aprendosi  a una dimensione ‘altra’, dà espressione al ‘noi’ e preferisce adire all’anagrafe locale, in specie a quella meno ufficiale, popolana, recuperata a buon diritto (sia pure senza una ‘coscienza di classe’), finalmente, in tutta la sua dignità (si pensi all’epica minima degli ultimi e dei dimenticati, in Nun ci pòzze ì con Pérediscànne, Sciffuatimpe, Ziccarde, Schève, Speramaschètte): il mondo ‘magico’ (con termine demartiniano) a lungo cercato, il suo, l’unico capace di dare un’anima (e quindi un senso) alle cose. Un viaggio nella memoria, oltre le sue colonne d’Ercole, vissuto nel chiuso delle pareti della casa di Piazza Ottavilla, in Roma, con un lavorio di archeologia esistenziale che da sùbito si è configurato come una ‘catabasi’ nello spazio (’A Ravatène finirà per essere un primo solido attracco, l’inizio della sua nuova narrazione; ancora da ultimo, ri-usata a mo’ di diapason nelle sue memorabili esecuzioni orali), nel tempo (esemplare il recupero del passato magno-greco nell’eponima Metaponto, al di qua dei fasti imperiali romani della roboante propaganda fascista, tanto remoto da essere ‘eterno’: «Ci su’ tante billizze, / a Metaponte, / ca s’abbràzzene mute suttaterre»), nell’io (l’allora della prima giovinezza,  trascendendo le ferite di un’infanzia negata, segnata irreparabilmente dalla perdita, oltre le macerie di una maturità vissuta dalla parte sconfitta dalla storia). Fino a constatare quanto la sua formazione fosse indissolubilmente radicata in quel mondo. Ogni angolo, ogni persona, ogni oggetto rimandava a un ‘ricordo’, tracciandogli le coordinate dei suoi sentimenti.

In prospettiva, quell’apologia e quella riscoperta rientrano di diritto nel campo più vasto che, con un’espressione cara a David Maria Turoldo, si potrebbe chiamare la «ricchezza della povertà». Quella per la quale si è attribuito il massimo di dignità e di valore alle cose semplici. Per queste, non si è esitato a tornare indietro (sapendo che era l’unica strada per andare avanti e dare corso ad altri auspici), a scendere e a ‘sporcarsi le mani’ in basso. Da qui, l’epiteto ‘povero’, nel tardo Novecento, lo si è visto declinare nell’architettura (fornendo una nuova vita a rustici, casali, cascine, casolari, masserie, bagli, grancie…), nel teatro (basti il nome di Grotowski), nell’arte (con Boetti, Fabro, Kounellis, Paolini, Merz…), nella cucina (certamente nota al Pierro che scrive per il dellarchiano «Apollo buongustaio»), ovunque cercando il punto di tensione e di congiunzione fra locale e globale, fra l’infinitamente piccolo e lo smisuratamente grande.

È grazie a questa ‘innovazione’ che Pierro ha potuto dare un senso a quel guardarsi indietro, non più con valore meramente retrotopico, nostalgico, ma (giusta la parola con la quale si è concluso ufficialmente il suo percorso poetico) ha potuto meglio guardarsi dentro e pensare alla «speranza» come base di una sua personale eu-topia, l’ultima, per definizione (come si è avuto modo di notare, non casuale suggello di  Nun c’è pizze di munne, e quindi dell’opera tutta).

Giorgio Delia

*Ringrazio davvero tanto il prof. Giorgio Delia, per questo brillante contributo, essendo egli tra i più attenti studiosi viventi di Albino Pierro (Tursi, 19 novembre 1916-Roma, 23 marzo 1995). Al Vate Tursitano ha dedicato da sempre articoli, saggi e libri (ricordiamo almeno Metaponto e dintorni. Avviamento allo studio di Albino Pierro, Castrovillari, Il Coscile, 1990). Con la sua produzione critica, Delia ha offerto anche nuove prospettive interpretative della poetica del grande Pierro, contribuendo moltissimo a rendere attuale la poesia e la memoria del poeta, soprattutto alle nuove generazioni. Un lavoro ricco, articolato e valoroso, il suo, che merita attenzione costante e sconfinata gratitudine. (s.v.)

Albino Pierro (ritratto dell’artista Vincenzo D’Acunzo)

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