
La morte di mio fratello Giuliano (Matera, 11 aprile 1968-Tursi, 23 aprile 2022) risale esattamente a tre anni fa, aveva da pochissimo compiuto 54 anni. Il sabato mattina, appena sveglio, si era seduto sul letto e aveva messo i piedi a terra, poi all’improvviso si è inclinato su un fianco e si è disteso senza un lamento. Inutili i soccorsi, pure prontamente intervenuti. Ci ha lasciati così per sempre, molto probabilmente per la stanchezza del suo cuore grande. Affettuoso e ingenuo, appassionato e talvolta incontenibile, sorridente e ottimista, erano tutte qualità caratteriali che la sua fine non ha cancellato in noi e che ricordiamo sempre come doni preziosi nel tempo che avanza. Nostra madre, Melina Angotti (Tursi, 30 gennaio 1935-Tursi, 20 luglio 2022), era da un paio di anni non più lucidissima, se non a sprazzi, dopo la rottura del femore, prima di una gamba, poi dell’altra dopo un anno, perciò inesorabilmente ormai sul viale del tramonto e bisognosa di assistenza, che è stata offerta con premurosità, per quanto ha potuto, anche dallo stesso Giuliano. Lei era vedova da 35 anni di papà, Domenico Verde (Tursi, 04 ottobre 1931-Tursi, 16 dicembre 1986), che aveva sposato il 6 giugno 1954 nella chiesa di San Michele Arcangelo, nell’omonimo rione del centro storico dove abbiamo sempre vissuto fino al 1969, quando tutta la famiglia si è trasferita nella parte bassa e nuova del paese, destinataria di un alloggio popolare, poi riscattato. Mamma ci diede l’impressione, non infondata, restando sola, di essere inconsapevole della perdita di Giuliano, pensavamo, sbagliando, come mi confermò piangendo in un momento di ritrovata serenità d’animo, prima di morire, neppure tre mesi dopo. Entrambi sono morti nella stessa abitazione di via Napoli, al primo piano, dove loro vivevano assieme da circa 26 anni, in pratica si tenevano compagnia, quasi sempre divertita e amabile, come capita all’unione di due diverse ed eccezionali solitudini.
Dodici giorni dopo il suo ultimo compleanno, finiva così, per noi con un senso di impotenza e in un angosciante silenzio, la parabola di Giuliano, persona di immensa e genuina bontà, che ricordo con tenerezza perché da lui ho imparato tantissime cose di valore, su tutte l’assoluta assenza del male nel suo mondo. Che continua a essere anche il mio, sempre e comunque, nonostante tutto. Ma anche perché lui è stato una persona singolare, più che onesto e molto caro alla famiglia tutta e anche alla comunità di Tursi, con il suo inconfondibile stile di vita che ha donato, in questi ultimi decenni, gioia e affetti, pensieri e legami, ma anche sentimenti genuini di tormento e sofferenza, nei modi a lui più congeniali e nei limiti delle sue possibilità, come un eterno ragazzo senza mai grilli per la testa. In particolare, ricordo l’impegno assoluto della collaborazione con la locale associazione della Protezione civile Gruppo Lucano, come se fosse una seconda famiglia, circondato dall’affetto sincero dei tanti amici anche di altri comuni della regione. Più che doveroso, pertanto, rivolgere una duratura e speciale gratitudine all’intera comunità tursitana, che gli ha sempre voluto bene, destinandogli in continuità affetto e attenzione, bonarietà e vicinanza, come in un ideale, intenso e amichevole abbraccio, testimoniato anche dall’affettuosa e generosa presenza e dalla sensibilità istituzionale del Comune e degli stessi compaesani alle esequie, praticamente fino all’ultimo istante dell’addio.
Giuliano era nato il giovedì della passione di Pasqua di quel fatidico anno, nell’ospedale della Città dei Sassi, l’unico dei tanti figli partorito da mamma non nella nostra casa. Amico di tutti, Lui è sempre stato speciale, fin dalla nascita, accertata vera causa dei problemi irreversibili e limitanti (un accertato trauma neonatale, con il probabile uso del forcipe, come hanno confermato tutti gli esami clinici e gli accertamenti tecnico-diagnostici). Nella ricca aneddotica attribuita a Giuliano si rivela l’oscillazione di un pensiero genuino, spontaneo, diretto, non privo di logica e a suo modo riflessivo. Ne ricordo uno. Un pomeriggio di una decina di anni fa, Giuliano e la mamma erano andati a casa di un anziano amico deceduto nella mattinata, “per la visita al morto”. Intorno alla bara aperta c’era il figlio quasi coetaneo e con problematiche e fragilità simili a quelle di Giuliano, non a caso i due erano grandi amici e si esprimevano in un dialetto ristretto. L’orfano si avvicinò e gli chiese: “Dimmi la verità: è inutile piangere, vero, tanto poi papà ritorna!”. Giuliano lo guardò stupito e aggiunse: “Eh no, ma che dici, sarebbe una ingiustizia, il mio non è mai tornato, perché il tuo dovrebbe!?”.
Undici giorni prima del decesso, l’11 aprile del 2022, ai tempi difficili della pandemia, avevamo organizzato con la sobrietà consentita una piccola festa solo tra noi familiari, come abitualmente facevamo praticamente da sempre, per il 54° compleanno di Giuliano, fratello di immensa bontà autentica, con il suo inimitabile, rispettoso e trasparente sorriso. Era per lui, e certo anche per noi, un avvenimento importante, ma non ha mai inteso festeggiare alla grande, tranne forse quello “importante” del 50°, perché è sempre stato modesto, perfino umile, il più umile di noi tutti (dodici figli, sette maschi e cinque femmine, si diceva una volta). Il “fratellone”, così lo chiamavano alcuni di noi, si accontentava, in certo modo, di non esser un anonimo cittadino della comunità locale, e non a caso rispondeva sempre a tutti i saluti che i tursitani gli indirizzavano e si avventurava solitario nel centro urbano e per le vie del paese, che conosceva benissimo, quali che fossero le condizioni meteo, non raramente senza ombrello sotto la pioggia. Come me, Lui amava Tursi in modo assoluto da sempre e se talvolta ventilava il pensiero di andare fuori, sia chiaro per brevi periodi, in realtà era solo un modo di manifestare il suo desiderio di recarsi a trovare qualcuno dei fratelli sparsi per l’Italia, esattamente come le sorelle con le rispettive famiglie: Demetrio e Ninetta a Roma, Massimo a Bologna (e poi a Roma), Teresa a Genova, Milva a Siena, Romina a Pavia (qui eravamo rimasti in quattro, con Claudio a Tursi, Emma a Montalbano Jonico e Sergio a Valsinni). La consapevolezza di stare bene nel paese era sintetizzata dall’augurio di restarci ancora a lungo, per contribuire a cambiarlo, diceva, “vorrei che diventasse sempre più come una casa grande, perciò mi piace fare colazione al bar, anche andando a piedi fino a Ponte Masone”.
Giuliano è stato quello che ha chiesto poco e ha avuto anche meno dalla vita. E lo sapeva benissimo, senza mai farne un dramma, perché aveva imparato ad accettarsi. Il profilo robusto degli ultimi anni ci aveva perfino fatto dimenticare quanto sia stato belloccio da bambino, slanciato e quasi biondino. E carino è rimasto davvero per tutti gli anni della scuola Elementare e fino alla scuola Media, che non ha voluto completare (ma il “diplomino” lo prese al serale, successivamente). Fu allora che, solo tardivamente, si comprese la sua condizione, e questo ha segnato per sempre la sua e la nostra esistenza. Dotato a suo modo ironia, amava l’amicizia vera e disapprovava radicalmente solo chi non lo rispettava come persona. Incredibile a dirsi, la vaga idea del male, pur nelle minime manifestazioni del semplice rancore, non è mai stata contemplata nel suo universo psicologico e umano. E tutto questo è un aspetto della sua vita che mi emoziona, stimola e commuove in continuità. Non che tutto sia stato sempre facile, in fondo la sua sofferenza interiore rarissimamente necessitava di uno sfogo, soprattutto negli anni giovanili, tanto che alcuni oggetti sono volati dal balcone, “non piatti e bicchieri perché si rompono subito, meglio qualche piccola sedia o tavolino, che si possono sempre aggiustare; faccio questo perché non so con chi prendermela”, ripeteva quasi fino alle lacrime, subito pentito.
Giuliano gradiva gli atteggiamenti di umana simpatia e i comportamenti rispettosi, soprattutto la bonaria ironia che lo divertiva e non di rado alimentava. Egli riusciva a dare affetto sincero e amore praticamente a tutti, più di quanto gli altri gliene potessero destinare. Ma lui non ci faceva caso, lui era buono, come raramente capita, anche se era il più debole, scoperto, fragile e indifeso. A noi tutti mancano il suo affetto sincero, il sorriso disarmante e la sua visione ingenua e disincantata del mondo e della vita stessa, con l’amabile intreccio di fantasia, realtà e sogno. E tutto questo resterà nella condivisa memoria, per tutto il tempo che ci è dato. Tursi ha perso un segno della sua anima collettiva e del suo paesaggio anche interiore, perché si impara molto dalla diversità e disabilità. Su tutto mi resta la massima di incoraggiamento che mi rivolgeva, in un condensato di saggezza inestimabile: “Totò lascia stare, fregatene, pensa alla salute e ridiamoci su”.
Giuliano viveva sempre nel presente quotidiano e sembrava non avere passato né futuro, in compenso era dotato di una ottima memoria, di solide abitudini, come la pulizia e l’igiene quotidiana, badava perfino ai suoi panni, ed era quasi un rituale il lavarli e asciugarli, inoltre gli piaceva farsi le chiacchierate con Rosa, Leandro e Ruben e seguire un paio di telegiornali al giorno, oltre a informarsi con curiosità a livello locale, a suo modo sapeva dare qualche indizio su molti fatti di cronaca paesana. Proverbiale il suo rispetto assoluto per la divisa dell’Arma dei Carabinieri, incarnata dal maresciallo Andrea, nostro cognato di fuori regione. Con il passare del tempo era anche migliorato, essendo per certi aspetti più pacificato e passionale al contempo, diremmo più consapevole del proprio essere. Ogni minima occasione era motivo per sorridere e festeggiare. Gli bastava veramente poco per essere felice: il saluto di un amico e il sorriso di un familiare, la carezza di un fratello e l’amore dei nipoti tutti, che lo adoravano, ricambiati.
Tra i tanti suoi involontari insegnamenti, con il suo sguardo carezzevole che non contempla mai il male o la minima disonestà, sembrava dirci ogni giorno, lui che viveva sempre nell’eterno presente del semplice quotidiano, che tutto è vano, relativo, che tutto passa. Giuliano riusciva a dare affetto sincero praticamente a tutti, spesso più di quanto gli altri gliene destinassero. Ma lui non ci faceva caso, lui era buono, più di noi, anche se era il più debole, scoperto e indifeso. Possiamo dire che era davvero un elemento riconoscibile del paesaggio tursitano. Una giornata memorabile per lui è stata anche quella del 2020, nel compimento dei 52 anni, con la consegna del suo ritratto, eseguito con affetto e meraviglia dal grande artista e amico tursitano Vincenzo D’Acunzo. Rimase in silenzio a lungo, e per la prima volta vidi i suoi occhi luccicare, ma poi aggiunse “Mi piace, si, è bellissimo, ma io non ho fatto nulla… sono innocente!”, suscitando in noi una contagiosa voglia di tenerezza. Un velo di duratura tristezza, inusuale per lui, lo colpi solo quando il piccolo Luca, figlio della nipote Verdiana con Alberto, casualmente anticipò la nascita di un giorno rispetto al compleanno di Giuliano, come invece lui sperava. Ma i miracoli accadono quando il destino si distrae, e nella circostanza non fu così, fino al loro primo incontro, mesi dopo, quando con delicatezza e dolcezza prese il bimbo tra le mani e la gioia rasserenò per sempre il suo stato d’animo.
Carissimo Giuliano, sei stato davvero un dono grande e prezioso, indimenticabile. Adesso che puoi, libero di andare oltre il tuo limite, nessuno potrà fermarti. E mi raccomando, sorridi, sempre, per sempre, in compagnia del nostro amore.
Salvatore Verde




