LA VERITÀ È SEMPLICE di Guido Capitolo

Storia di Tursi
Guido Capitolo (Tursi, 1906 – Udine, 1960)

La morte (nel 1954) del noto giurista Manlio CAPITOLO, a 51 anni, è rivissuta l’anno successivo nel memoriale inedito del fratello Guido, docente e preside nelle scuole superiori del Friuli Venezia Gulia, scritto dopo essere stato a Tursi per la commemorazione. Ancora oggi permane un ingenuo alone di mistero su quella fine, che l’anima popolare attribuì all’invidia, la stessa che ancora ferisce, ovunque, sempre. (s.v.)

Manlio Capitolo (Tursi, 1902 – Roma, 1954)

Vincenzo (Tursi 10.8.1900 – 19.3.1939), Manlio (Tursi 28.11.1902 – Roma 21.8.1954)  e Guido (Tursi 05.9.1906 – Udine 09.01.1960), erano i tre figli di Domenico CAPITOLO (Tursi, 02.4.1864 – 14.6.1931), di lontane origini pisticcesi, e Maria AYR, detta Marietta (Tursi 26.6.1876 – Roma 26.4.1955), tursitana ma di origini scozzesi. Il matrimonio fu celebrato il 19 luglio 1899 e la  coppia visse a Tursi in via Garibaldi 42. Primogenito di Vincenzo, il Dr Domenico era un valoroso avvocato e notaio nel periodo 1927-30, ma fu anche umanista e letterato, oltre che Regio Sub-Economo, presente come testimone all’Incoronazione del 1901 della Madonna di Anglona in Cattedrale.[1] Donna Marietta fu una stimata maestra Elementare  per diverse generazioni a Tursi; ormai da anni vedova, l’8 marzo 1939 emigrò a Udine; in seguito si spostò a Roma, dove spirò  a 78 anni, pochi mesi dopo la morte del secondogenito.  Lei e Manlio sono sepolti nel cimitero del Verano della Capitale. Il primogenito Vincenzo morì ad appena 38 anni, proprio nei giorni successivi alla partenza della madre. Guido aveva sposato Anna CASCELLA (1917-2012) che ha partorito due figli, entrambi poi sposati e senza prole: Luciana (1939), che vive a Roma, docente in pensione di Italiano e storia nelle scuole Secondarie, e Aldo (1947 -2009), funzionario di banca.

Entrato nella Magistratura a soli 22 anni, il 15 giugno 1925, Manlio Capitolo divenne Presidente del Tribunale di Venezia, quindi Presidente Capo del Tribunale di Roma e infine Consigliere di Cassazione, prima della prematura scomparsa che colpi l’immaginario popolare tursitano. La morte improvvisa a Roma di Manlio, definito il “Poeta del Diritto”, si è riverberata a Tursi, in termini di negazione della verità (la malattia epatica). In certo senso adombrata dall’anomala, diversa e strana resocontazione della stampa Capitolina, esaltante alla notizia dell’arrivo del Presidente nel Tribunale romano, ma minimizzante rispetto all’improvvisa dipartita (di solito, si fa esattamente il contrario). Tanto che il fratello Guido, appunto, scrisse questo memoriale, intimo e struggente, certamente per una più genuina elaborazione del lutto, continuata anche negli ultimi suoi quattro anni di vita, ma forse anche, probabilmente, per tacitare quelle dicerie.

“Guido Capitolo studiò nel Convitto Nazio­nale di Matera, conseguì nel 1925 la maturità classica a Potenza e si laureò in filosofia presso l’Università di Napoli nel Novembre del 1929 discutendo la tesi «La filosofia storica nel secolo XVI in Fran­cia», tesi che fu poi pubblicata nella collana di letture filosofiche di­retta da A. Aliotta presso l’Editore Perrella in Napoli. Insegnò nel Liceo di Matera e vinse la cattedra di Storia e filoso­fia dapprima nel Liceo pareggiato “Ovidio” di Sulmona e poi, sempre in seguito a concorso, nei Licei dello Stato e fu assegnato al Liceo Scientifico di Udine nell’ottobre del 1935. Da quell’anno fino ai primi giorni del 1960, per cinque lustri – grande mortalis aevi spatium! – svolse la sua attività ininterrottamente nel Liceo, come docente e come Preside, e sempre co­me educatore, perché dell’educatore ebbe il pathos umano e la ge­nialità artistica” (scheda redatta dal Liceo “Giovanni Marinelli” di Udine). Guido era un intellettuale “libero, amato e stimato nel mondo in cui viveva, una leggenda della scuola udinese, ha scritto Valentino Castelllani, prestigioso sindaco di Torino”, aveva collaborato con Piero Calamandrei e lasciato un segno di rettitudine, moralità e discrezione.

Salvatore Verde


[1] In Synodus Dioecesana Quam Pro Temporum Opportunitate Sub Auspiciis B. Mariae Virginia Ab Anglona Prima Anniversaria Die Redente SollemnisCoronationis Eius Carmelus Pujia Episcopus Anglonen. Tursien. Diebus XX, XXI, XXII, Maji A. D. MCMII Celebravit, Senis Ex Officina Typ. S. Bernardini, MCMIII, p.155

LA VERITÀ È SEMPLICE di Guido Capitolo

            Sono tornato, dopo circa vent’anni, nel mio paese natio. Avevo deciso di non rivederlo più, perché volevo che rimanesse nella memoria, dove da tempo si svolge la parte migliore della mia vita. “Amore di sogno”, scriveva il Leopardi nello Zibaldone, parlando del suo affetto per il fratello Carlo: amore di sogno era il mio per la terra natale, fatto d’immagini che si desiderava tenere lontano, perché a contatto con la realtà non perdessero la loro vita fuori del tempo e l’atmosfera di leggenda che avvolgeva la mia infanzia e la mia adolescenza. Mi pareva che quanto io avevo vissuto non fosse morto, ma si fosse distaccato da me e continuasse una sua lontana esistenza incantata, come in una fiaba, che era dolce e triste rievocare. La narravo questa fiaba, ai miei bambini che nella loro immaginazione trasfiguravano il mio paese natale, che era per loro il più vivo e il più reale di tutti, perché aveva la realtà della fantasia, in cui io, fanciullo ed adolescente, non differivo dalla folla dei viventi personaggi delle loro favole. La rievocavo con mio fratello Manlio, quando egli era ammalato incurabile ed entrambi conoscevamo la triste verità, che ci nascondevamo a vicenda: ma egli la nascondeva a me molto meglio di quanto io non riuscissi a nasconderla a lui, che era anche allora il fratello maggiore ed era sempre il più forte e il più sereno, come quando dovevamo partire per il collegio ed avevamo entrambi voglia di piangere, ma nascondevamo con pudore le nostre lagrime ed ognuno piangeva per conto suo in segreto.

            La morte era imminente e negli ultimi giorni il suo volto era diventato bellissimo, nella luce degli occhi che presentivano l’infinito e che irradiavano tutta la persona. Non era la morte che schianta ed umilia, ma era un consumarsi interno, che lasciava allo spirito la sua lucidità ed il vigore, accresciuti dal più leggero contatto con la materia, tanto che qualche volta insorgeva in me l’illusione che l’irreparabile non potesse verificarsi: la verità era allora obliata, discutevo con lui animatamente come nei tempi felici, giungevo sino a contraddire con convinzione il suo punto di vista, per quell’amore polemico che rendeva così frequenti le nostre dispute ideali; ma nella solitudine della mia camera mi rimproveravo il mio contegno, mi accusavo d’insensibilità e di egoismo, per poi ricadere nella stessa illusione, che egli, forse consapevolmente, infondeva in me. Trascorremmo le ultime sere sulla terrazza della nostra casa: il crepuscolo della calda estate romana scendeva sulla città e noi guardavamo assorti i filari di alberi che si perdevano in lontananza verso il Cianicolo, mentre le strade si animavano di folle chiassose e felici. L’onda dei ricordi scendeva su noi, ma la rievocazione era rapida, appena abbozzata, perché il nostro sentimento era trattenuto da un invincibile ritegno ed anche allora un sorriso interveniva sempre a contenere una lacrima.

Ricordammo la scoperta che facemmo del sole nell’adolescenza. Ci alzammo a notte fonda e con altri due compagni c’inerpicammo per gl’intricati vicoletti del nostro villaggio, illuminato dal plenilunio estivo, perché avevamo deciso la sera prima di assistere allo spuntare del sole, che non avevamo mai visto. La nostra meta era il convento di S. Francesco, che amavamo con tutto il cuore e che sentivamo nostro perché noi soli lo frequentavamo: era abbandonato forse da secoli e d’intatto non aveva che la facciata, mentre l’interno era una lugubre massa di rovine, con qualche traccia di una vita remota che ci dava un senso di sgomento profondo. Vedevamo da quell’altura il nostro villaggio, sparso sui cigli di burroni profondi, che come favolosi mostri chiedevano sacrifici cruenti: più volte entro quelle orride gole erano scomparse umane vittime, v’era  precipitato anche qualche fanciullo, che noi conoscevamo. Eravamo in trepida attesa e i nostri occhi erano fissi all’oriente: come nella leggenda dell’anno Mille, non si trattava di un fenomeno naturale che si ripeteva da milioni di anni, ma di un miracolo che si presentava a noi, che lo contemplavamo con animo vergine e lo sentivamo come una creazione, che non era mai stata e che non poteva più ripetersi.

            Non era di certo lo stesso sole che tramontava sulla città indifferente e neppure noi eravamo gli stessi. Ma più vicino a quel tempo era lui, che sorrideva al ricordo e mi riportava alla nostra casa: accanto al focolare, dove trascorrevamo le interminabili sere invernali; nel cortile, dove giocavamo; nell’orto, dove una volta costruimmo un villaggio, che in mio onore battezzammo S. Guido. E della nostra casa rivedevamo ogni camera e carezzavamo ogni angolo: quello in cui dormivamo e attendevamo i doni della Befana ed una volta la maga si dimenticò di lui, perché era più grandicello di me e pensava che ormai fosse fuori dell’incantesimo: di fronte alla sua delusione il babbo annunciò che forse la vecchierella li aveva dimenticati in un’altra camera e comparve infatti trionfante con i doni: ma egli allora sentì che l’infanzia era morta per lui. Di fronte alla nostra casa c’era zia Arcangela, una vecchietta ottantenne che abitava in una stamberga e noi non sapevamo di che cosa vivesse: ma noi rubavamo alla mamma nella dispensa le provviste e le portavamo a lei, che lacrimando ci benediva. Dentro la casa c’erano angoli che io non potevo rievocare perché erano quelli che racchiudevano le più delicate sfumature della sua anima: quello in cui assisteva il padre infermo e mai si moveva dal suo capezzale, mentre io, assai meno resistente e molto più svagato, correvo a giocare ed entrambi dimenticavo; quello in cui studiava e nello studio dimenticò la sua giovinezza, che trascorse solitaria e malinconica in uno sperduto villaggio, sempre lontana dalla città universitaria in cui i suoi compagni passavano gli anni più belli della vita.

            Erano anni difficili per la famiglia ed egli non volle che fosse fatto per lui il più leggero sacrificio: studiò da solo e sostenne sempre tutti gli esami in una sola sessione; preparò da solo la tesi, lontano dalle biblioteche, e conseguì splendidamente la laurea: quando ancora era quasi un giovinetto. Dopo la laurea riprese gli studi per il concorso in magistratura: io rivedevo il suo tavolino, che era accanto a un balcone, da cui contemplavamo il desolato paesaggio: il torrente sempre asciutto; il deserto convento di S. Rocco che era a picco su di un’altura quasi inaccessibile, animata soltanto da due tristi cipressi; le brulle montagne su cui erano sparsi due villaggi, che noi sentivamo lontanissimi, come se appartenessero a un continente inesplorato. Quando calava la sera, da quel balcone contemplavamo la tenebre profonda, appena rotta da qualche fioco lume che veniva dalle case invisibili: erano lume di candele e di lucerne, quasi lampade votive di un cimitero. E in quel silenzio irreale mi pareva qualche volta di essere stati dannati a vivere in una città di morti, dove nulla accadeva e dove nulla potesse accadere: l’amore, che conoscevamo dai libri, era una leggenda che apparteneva a un mondo irreale, ad un’età di Saturno che era sepolta per sempre. In quella tenebre sentivamo qualche volta suonare le campane: erano voci umane che avevano soltanto la nota della tristezza modulata come sospiri profondi di anime svanite, che narravano a noi ignoti dolori di un’età lontana, che non poteva differire da quella presente e di quella futura, perché il tempo là non era stato ancora inventato.

Studiava ed il lume a petrolio concentrava la luce sul libro, lasciando nel buio la camera, dove qualche volta io m’intrattenevo e sognavo: sognavo un assurdo avvenire, in cui la nostra vita non sarebbe stata un continuo controllo della nostra anima, in cui avremmo smesso di scavare nell’interiorità e la gioia sarebbe sopraggiunta, al passato non avremmo più pensato, per vivere sul serio. Per vivere sul serio specialmente lui, che sino a quel tempo della vita non conosceva che il collegio e la casa, lo studio e le malattie dei famigliari. Ma vinse il concorso, riuscì il primo in assoluto, egli che era il più giovane di tutti i candidati, e fu destinato a reggere la giustizia in una delle sedi più aspre, dove i delitti più atroci quasi non impressionavano più perché apparivano fatali eventi naturali, come le valanghe e le alluvioni. Passò tra quelle valanghe senza essere sfiorato e salì verso la vetta quasi senza proporselo, come il fuoco, di cui parla Dante, che si muove leggero verso l’alto, non per uno sforzo, ma “per la sua forma che è nata a salire”. Ancora nel pieno vigore dell’età matura era giunto a pochi passi della meta suprema, ma di ciò non mostrava di accorgersi ed aveva conservato l’animo di una volta, non attenta al successo, ma alla purezza delle intenzioni; concentrata nel sacrificio, che non sentiva come tale; nell’amore verso gli umili e gli affetti, che non ostentava, ma che copriva di segreto pudore. Sentiva anche allora il problema del dolore, che non riguardava soltanto l’uomo, ma ogni essere vivente, perché nell’unità del reale avvertiva, come un grande filosofo, la solidarietà dell’universo e si affannava per la sofferenza di un moscerino o di un animale, come per quella di un uomo. Un cane che latriva nella notte gli appariva percosso da dolore umano, tanto da voler entrare in lui e porgere aiuto, come in questa nota che, al pari di altre, ha un impeto lirico, pur non essendo seguita che per ricordo di uno stato d’animo:

 “Rocco/ il grido/ della bestia in catene/ si levò nella notte./ Fasciato/ di una pena senza luce,/ senza attesa di pietà,/ squarciò/ gravemente/ il buio./ Non tentò di salire./ Nell’istante di angoscia/ volli porgere aiuto/ al suo cuore umano/ chiuso/ nel petto di bruto…/ Volli entrare in lui/ e abbracciarlo./ Ma sentii/ che era nella stessa pena,/ che la stessa notte ci avvolgeva./ Mi riadagiai sul guanciale/e attesi/ con paura/ il grido.

Ora era presso la morte e vi era giunto senza nessuno se ne accorgesse: il vigore del suo spirito sembrava inestinguibile e sino agli ultimi due giorni si occupò del suo lavoro; poi non si alzò più dal suo letto, attanagliato da atroci dolori, che nessuno poteva lenire, ma che egli sopportava con la rassegnata serenità di un saggio antico. Era accanto al suo capezzale la madre, che, ugualmente forte, non emetteva un sospiro e non versava una lagrima: la guardò teneramente nell’ultimo giorno e sentì il bisogno di abbracciarla. Rimanemmo poi soli e con un triste sorriso ricordo che mai avremmo fatto una carezza alla nostra mamma: ricordo delicati episodi del suo amore per noi e la sua dedizione alla famiglia, in cui aveva obliato la sua persona. Tacque per alcuni istanti e, con voce mutata che già sembrava venire dall’eternità, guardandomi con occhi lucidi e penetrati che non gli aveva mai visti, disse: “La verità e semplice!”. Furono le sue ultime parole: fu solo verso sera che io feci ciò che avrei voluto fare tante volte nella vita e mai avevo osato: presi la sua mano, la strinsi nella mia e la sentì vibrare sino alla fine. Quando lo vidi poco dopo nella camera ardente, bellissimo nella solennità della morte, io sentii che il nostro non era un distacco, ma un unione che non poteva più perire, perché era fuori del tempo, nella luce dello spirito, di cui, nell’istante della morte, con le sue ultime parole, m’aveva rivelato il senso più vero.

Trascorsi la notte accanto a lui, in un muto colloquio: la verità era semplice ed egli me lo aveva insegnato in tutta la vita, senza che io me ne accorgessi; io l’avevo ricercata con l ’intelletto, che scruta ed indaga la realtà, per chiuderla in formule logiche, legate indissolubilmente alla infelicità del mio essere finito e mortale. L’avevo ricercata con l’orgoglio di Pilato che domandò “quid est veritus?” al Maistro, che gli aveva detto di essere la verità. Come Pilato non attese pure la risposta alla sua domanda, così io non vedevo la verità che mi era accanto, elevavo la mia empiricità al regno dell’assoluto e mi distaccavo sempre più da Dio, che invano a sè mi chiamava con l’esempio di una vita che sempre aveva rinnegata sè stesso, nella dedizione agli altri: accanto al capezzale del padre ammalato, nel seno della famiglia che non voleva che si sacrificasse per lui, nel duro esercizio del suo dovere nelle situazioni più drammatiche, nella coscienza del dolore che affanna gli uomini, gli animali e tutti gli esseri viventi, che erano per lui un unico spirito che gl’impediva di sentire il suo dolore. Io avevo cercato di attingere l’infinito sovrapponendo indagini su indagini, pensieri su pensieri, come il gigante del poema su Haller che voleva giungere a Dio sovrapponendo monti su monti e in ultimo esclama meravigliato: “Io tolgo tutti i monti e ti vedo innanzi a me.” Io lo vedevo quella notte innanzi a me, perché vedevo finalmente la mia persona effimera, insignificante, irreale: nel riconoscimento di essere tale, il senso dell’universo si trasfigurava e la verità diventava semplice;  io non ero altro che un atomo che solo in questo vibrava all’unisono con il tutto e nel tutto s’immergeva e si perdeva, poteva acquistare dignità e rilievo. Intesi quella notte le parole del Maistro: “se uno vuole tenermi dietro, rinneghi se stesso, prenda ogni giorno la sua croce e mi segua”. Intesi di chi voleva parlare quando disse: “non guasteranno la morte finché non vedano il Regno di Dio”.

            Io vedevo finalmente il regno di Dio, che non era fondato sull’intelletto, che divide, ma sull’amore, che unifica e, come nel Cantico delle creature, spiritualizza tutte le cose che perdono la loro ottusità e si animano del comune spirito che le regge, onde nulla ci è estraneo e ogni essere ci è vicino e, per quanto abietto possa sembrare, è compagno e fratello. La morte così non è più spaventoso annientamento e naufragio, ma prosecuzione in quel regno dello spirito da cui non è possibile disgiungerci, se veramente ne abbiamo fatto  parte, prendendo ogni giorno la nostra croce, aiutando gli altri a portarla e soprattutto dimenticando la nostra per quella degli altri. La morte diventa così sorella che amorevolmente ci prende e si ricongiunge alla vita, in un ritrovamento di tutti gli spiriti che costituiscono l’armonia dell’eterno. Continuai il mio muto colloquio sino all’alba, finché il capo mi cadde stanco sul tavolo su cui egli era disteso; rimasi così fino a quando il primo raggio del sole che sorgeva su Monteverde mi colpì sul viso: era lo stesso sole che avevamo visto insieme spuntare nell’adolescenza sul convento di S. Francesco ed io sentii che sorgeva anche per lui e che non poteva tramontare.

            Tornai in quella camera dopo qualche mese. Mia madre aveva voluto rimanere nella casa dove era vissuta con il figlio, mentre io ero ripartito per una lontana città. Si spense improvvisamente e quando di sera io giunsi, la trovai nella stessa camera ardente, distesa sullo stesso tavolo su cui era stato il figlio. Anche per lei la verità era stata semplice. Io tutti avevo perduto, ma non per questo sentivo di essere rimasto solo: ancora più che nell’altra notte di veglia, gli spiriti dei miei cari erano uniti al mio, in un possesso che ormai non temeva più separazione. Mi parlava nel cuore la lirica di un poeta contemporaneo che io non sapevo di ricordare: quella della madre morte che conduce per mano il figlio, anch’esso morto, davanti all’Eterno per impetrargli il perdono e non osa guardarlo finché Egli non l’ha concesso. Ricorda allora di averlo atteso tanto e ha “negli occhi un rapido rispiro”.

            Qui il figlio aveva atteso la madre e l’aveva condotta per mano davanti all’Eterno, che non poteva non averli accolti nel suo seno perché per entrambi la verità era stata semplice. Sono ritornato, dopo circa vent’anni, nel mio paese nativo, che avevo deciso di non rivedere mai più. Vi sono tornato perché hanno voluto ricordare mio fratello nel suo paese natale, che tanto aveva amato e da cui era stato ricambiato di tenero amore. Discesi da una lontana città del nord e partii da Napoli di notte, con lo stesso treno che prendevo quando ero studente universitario per ritornare in famiglia; era un treno che fermava in tutte le stazioni e non arrivava mai. Sembrava che il treno si fosse fermato: nella dormiveglia sentivo il grido che annunciava le stazioni e mi pareva che fosse lo stesso grido; vedevo i volti dei viaggiatori che salivano e scendevano, e mi pareva che fossero gli stessi di una volta, come gli stessi erano i lumi e i treni che s’incrociavano o si udivano fischiare in lontananza come in un lamento.

            Mi addormentavo e mi ritrovavo lo stato d’animo di una volta, come se non fosse trascorso quasi una vita intera: ero io che tornavo nella mia casa, dove c’erano ad attendermi i miei cari; rivedevo l’arrivo, ripercorrevo la strada per giungere alla mia dimora, sentivo le esclamazioni di gioia e rivivevo la poesia del ritorno. Mi addormentavo e sognavo: il pergolato, che dal cortile si arrampicava sino al balcone della mia camera; il salotto, dove nelle giornate di pioggia m’intrattenevo con mio fratello e insieme rotavamo a un tavolo e parlavamo per ore: dei nostri libri preferiti, dei poeti adorati di cui recitavamo i canti più belli, del nostro passato e del nostro avvenire. Ma un grido più forte degli altri e l’irrompere del treno in una grande stazione sfolgorante di luci mi scuotevano dal sonno e rompevano l’inganno: il tempo aveva ripreso il suo flusso ed io non ero più lo stesso; sentii il brivido della solitudine e l’angoscia di un ritorno senza significato. Provai quasi il rimorso di rompere un dolce incantesimo e di distruggere con il celo della mia presenza una vita da fiaba che là continuava: la fiaba della mia infanzia e della mia adolescenza con i dolci personaggi che l’avevano circondata e l’avevano abbellita.

            Il treno ripartì dalla grande stazione e caddi in un sonno profondo che mi tolse ogni senso ed ogni immagine, finché le luci del giorno mi ferirono il volto e con un brivido tornai alla coscienza: innanzi a me si stendeva il paesaggio della Lucania, che non vedevo da vent’anni. Non l’avevo mai sentito come allora: un paesaggio di sogno, in bianco e nero; una terra brulla senza alberi e senza fiori; montagne desolate che cadevano a strapiombo su torrenti; villaggi sparsi su posizioni assurdi; malinconiche lande senza un segno di vita, con rare macchie e cespugli.  Mi balzò nella mente un passo del Diario di Kierkegard: “Qui tutto si distende nudo e senza veli dinanzi a Dio; qui non si trovano le molti distruzioni, i numerosi meandri, in cui sembra che la coscienza si possa nascondere e di dove riesce difficile richiamare alla serietà della vita i distratti pensieri. Qui la coscienza deve decidere in modo determinato e preciso di se stessa. Dove io posso sfuggire innanzi al tuo sguardo, o Dio?”. Compresi allora il segreto dell’anima che veramente è vissuta in quella terra e vi è rimasta aggrappata: là non si sfugge allo sguardo di Dio e là la coscienza deve decidere in modo determinato e preciso di se stessa. E compresi che chi non sfugge allo sguardo di Dio, sente che la verità è semplice.

                                                                                  Prof. Guido Capitolo

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