Nel 1760-61 la siccità più grande e drammatica della storia di Tursi, non piovve per 17 mesi

Storia di Tursi
Particolare dello stemma generale della Famiglia Brancalasso

TURSI – La lunga siccità del 1760-61 restò nella memoria anche dei potenti dell’epoca, tanto da renderne conto nella cronistoria della famiglia Brancalasso. Non piovve per diciassette mesi e tale prolungato  periodo di aridità caratterizzò tutto il vasto territorio di Tursi e oltre. E’ la più grande calamità naturale a noi nota e della quale si ha notizia certa. L’essenzialità descrittiva, priva di intenti estetici e letterari, è qui senza riferimenti a particolari iniziative religiose o anche superstiziose oppure ad altri fatti grandi o piccoli del periodo, mentre si comprendono tutti gli elementi di una politica annonaria, relativa alla domanda e all’offerta, ai prodotti agricoli raccolti e ai prezzi scaturiti e imposti, oltre che alla stessa tipologia del diversificato consumo.

Il tutto si ritrova nelle 170 pagine del manoscritto, esattamente a pag. 164 di Fedel memoria degli Uomini Illustri, Parenti, Stabili, Urbani e Rurali, Jus, Doti, Ragioni, Servitù, Prelazioni, Cappellanie, Benefici e sue Rendite, Notizie antiche appartenenti alla gentilizia famiglia BRANCALASSO, che ora si rappresenta dalli fratelli, Dottor Don Tommaso, Dottori Canonici della Cattedrale: Don Filippo, Abate Don Carlo e Don Nicolò Brancalasso, registrata nel 174 (in realtà gli autori estendono gli avvenimenti generali dal 1443 al 1797). Il testo è conservato dai coniugi di Ancona Ciriaco Sciarrillo Branclassi e Ambra Piccirillo, che l’ha encomiabilmente trascritto dopo anni di faticoso impegno. Olio, vino, orzo e soprattutto grano e bambagia furono le produzioni più colpite e questo aumentò a dismisura il numero dei poveri che invasero e frequentarono la Città di Tursi (comparvero più poveri forastieri delle nostre marine che della città ad un numero altissimo). Intervenne il Barone Donnperna per regolamentare la vendita del pane, in accordo con le tre maggiori famiglie dell’epoca, i Picolla Barancalassi e i Camerino, oltre agli stessi Donnaperna. La calamità fu mortifera per gli animali (E per l’animali fu fierissima detta siccità), mancando dalle campagne praticamente quasi del tutto il loro cibo.

E per meglio comprendere le dimensioni della catastrofe, basterà raffrontare le località citate con la quantità del raccolto: Masseria di Basso, tomoli seminativi 110 raccolto tom 22, ma olive seminate normalmente; Masseria della Torretta, 115 per tom. 18 e niente biade e paglie; Masseria della Serra per tom. 100, da 350  appena 30 tom. d’orzo; a Marone una raccolta significativa di bambagia, praticamente assente nel restante territorio di Tursi e Anglona, tale da causare il blocco dell’intera economia, con povertà e miseria.

Toglie ogni dubbio la trascrizione integrale di Ambra Piccirillo: “Si da memoria, che nell’anno 1761 fu un’indigissima annata di grano, bombace e vino ed oglio per la siccità da un anno e cinque mesi, e comparvero più poveri forastieri delle nostre marine che della città ad un numero altissimo che le tre primarie case di Donnaperna, Picolla Brancalassi, Camerino non comperarono grano, orzo sebbene il grano andava da carlini dieci ad dodici e fu oppresso il pubblico dell’annona fatto dal Barone Donnaperna a carlini quattordici il tommolo ed il pane ascendeva a carlini 18 che l’intervento fu magnifico, proibendosi all’altri casati di diminuire il pane, ed a forza dovevano comprare dal panittiere dell’annona, irregolarmente fatta. La massaria di basso nel detto anno, per tom. 110 di seminato se ne raccolse tom.22, e l’olive seminate normalmente. La masseria della Torretta 115 per tom.18 e niente di biade e paglie. Nela masseria della Serra per tom. 100, si raccolse tom. 350 da 30 tom. d’orzo. E per l’animali fu fierissima detta siccità. Marone fu singolare nella raccolta della bombace a 800, mentre tutte l’altre seminate nel territorio di Tursi, ed Anglona affatto non se ne raccolse, ed è così il prezzo finì a carlini quattro il grano, poichè se si fosse raccolta bombace, non vi sarebbe povertà e miseria”.

Non stupisca quest’ultima affermazione, sul ruolo della bambagia come motore derivato dell’economia rurale. Anche il medico e archeologo Antonio Nigro (Tursi, 1764 – 19/05/1854), primo e massimo storico locale, nel suo ancora attualissimo e fondamentale Memoria Topografica Istorica Sulla Città di Tursi E Sull’Antica Pandosia Di Eraclea Oggi Anglona (Napoli, 1851), così descriveva la società del tempo e annotava pure un secolo dopo: “I terreni di ogni prodotto capaci sono, come di grano, biade, legumi, vino, olive, frutti di ogni genere, agrumi di varie sorti, ortaggi, e specialmente bambagia, essendo questa l’unica industria, filata dalle donne per vivere, e quasi l’unico mezzo di rendita ad accrescere le sostanze delle famiglie civili. Il Governo vi teneva un regio procaccio per vetturare continuamente nella Capitale rolli di cottone filato, il quale fu poi levato da Gioacchino Murat in tempo della sua occupazione militare nel 1811. L’ordine plebeo è addetto chi ala zappa, e chi all’aratro, e chi alla coltura dei giardini: non vi sono mancati de’ buoni sartori, falegnami, calzolai, pittori, vasai, ecc. Oggi tutto è in decadimento, ed in scarsezza. Le donne sono addette a continuamente filare bambagia, che in tempo del procaccio si mandava così filata nella capitale; oggi perché un tal negozio è decaduto, se ne formano tele di varia larghezza, e coperte da letto di vario lavoro le quali manifatture poi a’ mercanti si vendono, che spesso spesso in traccia ne vanno” (testo integrale).

Salvatore Verde 

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