NOSTRA INTERVISTA AL FAMOSO NEUROSCIENZIATO PASQUALE D’ACUNZO, LUCANO DI TURSI A NEW YORK

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Pasquale D’Acunzo (Foto di Donato Fusco)

Ho incontrato Pasquale D’Acunzo, trentaseienne neuroscienziato lucano di fama internazionale, mentre rientravamo a Tursi, lo scorso mese di aprile. Lui proveniva da New York ed era poi salito sull’autobus a Milano, io invece a Bologna. Il suo era un graditissimo ritorno a casa per un irrinunciabile appuntamento in famiglia: mezzo secolo di matrimonio dei genitori, la madre Rosa Maria e il padre Vincenzo, artista eclettico e valoroso e poeta. Il nostro dialogare notturno, oltre il crepuscolo mattutino, ininterrotto fino all’arrivo, ha fatto emergere con immediatezza la stimolante acutezza del ragionare con maturità, saggezza e sensibilità, oltre che l’umana simpatia e il suo modo accattivante, chiaro, brillante e ironico. Un grande tursitano destinato a lasciare una traccia di sé, una persona davvero straordinaria, un giovane di eccezionale talento.

Attualmente è ricercatore post-dottorato nel laboratorio della Prof.ssa Efrat Levy al ‘Nathan S. Kline Institute for Psychiatric Research’ e alla ‘New York University (NYU) Grossman School of Medicine’ di New York, avendo già più di dieci anni di esperienza lavorativa, parecchie partecipazioni a convegni e seminari e quasi una ventina di articoli pubblicati su prestigiose riviste scientifiche internazionali (tra le quali Nature, Developmental Cell, Science Advances, Journal of Extracellular Vesicles).

D’Acunzo è impegnato a studiare il metabolismo e l’omeostasi mitocondriale del cervello, sia in contesti fisiologici che patologici, campi di applicazione che includono la sindrome di Down, la malattia di Alzheimer, l’atassia spinocerebellare, meccanismi mitocondriali legati all’invecchiamento e le interrelazioni tra dinamiche mitocondriali e dipendenza da sostanze psicotrope. Nello specifico, studia meccanismi mitocondriali di controllo qualità (come la mitofagia) e l’impatto sulla fisiologia e la patologia del cervello di un nuovo tipo di vescicola extracellulare di origine mitocondriale identificata recentemente nel suo laboratorio e che ha chiamato ‘mitovescicola’ (D’Acunzo, et al., 2021).

Come da accordi, ci siamo rivisti dopo qualche giorno, in mattinata, nel bar della centrale piazza del paese, mentre tutt’intorno la vita si articolava come sempre, in uno spontaneo elogio della lentezza, mentre le campane della cattedrale dell’Annunciazione suonavano a festa, come ogni domenica.

Niente di lontanamente avvicinabile a Manhattan. Viva la differenza. Anche con i nostri simboli pubblici esterni dello scorrere del tempo, cambiati negli anni. Ma oggi si sa, ognuno ha i suoi tempi.

D’A. – Si (sorride), ma New York è New York, e non si può dire che rappresenti tutti gli Stati Uniti. La metà della popolazione non è americana, non ha la cittadinanza e vive là, ma proprio per questo non ci si sente stranieri. Poi, la questione “tempo” è fondamentale anche a livello biologico, perché sappiamo pure quanto sia relativo. Infatti, oggi abbiamo delle misure per valutare l’invecchiamento delle cellule nel corpo di una persona, potendo addirittura calcolarne l’età biologica, proprio valutando l’aumento dei parametri di invecchiamento cellulare, ma un anno non significa granché, poiché talvolta può non accadere nulla in tale periodo mentre in un altro può succedere che si attivi un processo di invecchiamento anche trentennale, proprio perché ciascuno ha il suo tempo biologico che non necessariamente coincide con il tempo anagrafico.

Quando, come e perché ha deciso di trasferirsi a New York?

Dopo la laurea triennale alla Statale di Milano e la specialistica al San Raffaele, per il dottorato mi sono spostato a Roma Tor Vergata. Poi un anno di post dottorato all’Ospedale Bambin Gesù, dove ho portato avanti un progetto di ricerca con una borsa di studio, nel dipartimento del prof. Franco Locatelli, con il quale ho lavorato e pubblicato. Poi, nel 2018, ho visto questa offerta di lavoro interessante per proseguire un mio progetto, nell’istituto statunitense dove lavoro attualmente che aveva avuto dei finanziamenti. Io lavoravo allora sui mitocondri mentre la loro ricerca verteva su tutt’altro, ma si era verificato un fatto inaspettato che necessitava di spiegazione, relativamente proprio alle proteine mitocondriali. Loro non avevano lavorato su questo e quindi erano felicissimi che io avessi esperienza proprio su questi aspetti, ragione per la quale mi sono trasferito li. Abbiamo visto così che sono emerse delle cose interessanti, in pratica che le cellule del cervello producono sostanzialmente queste inaspettate componenti mitocondriali e le eliminano al di fuori delle cellule, e questo non era ancora un fatto noto e assodato, tanto più che non erano mai state studiate in vivo ma sempre sulle cellule in piastre di laboratorio. Noi abbiamo dimostrato che questo avviene e che il processo è alterato in correlazione con patologie come la Sindrome di Down e l’Alzheimer, utilizzando topi da laboratorio, non potendo assolutamente utilizzare la persona vivente, in un tipo di studi longitudinale (con un prima e un dopo per capirci). Proprio in questo mese di aprile abbiamo pubblicato un altro lavoro nel quale evidenziamo queste alterazioni e l’impatto sulla patologia, e parzialmente anche sull’invecchiamento. Le mitovescicole, una volta prodotte e rilasciate, essendo alterate, impattano sui neuroni e questi ultimi reagiscono a livello elettrico, sui meccanismi di memoria e proprio a livello sinaptico. Certo l’Alzheimer è una malattia complessa, ha tantissime origini sia genetiche che ambientali. Ma sicuramente ciò che noi abbiamo visto, ovvero che le mitovescicole contribuiscono allo sviluppo della patologia, ci ha permesso di individuare un meccanismo nuovo della patologia. Noi pensiamo che fermando questo meccanismo si potrebbe ripristinare lo stato di normalità e la malattia stessa. Noi stiamo lavorando su questo.

Che prospettiva amplia questa interessante ricerca?

La nostra idea è che una volta individuato il meccanismo, che prima non si conosceva, e che cosa va a modificare, cioè su cosa lavora tale meccanismo, allora si può pensare di cambiarlo, di modularlo, di indirizzarlo verso una condizione di normalità, e noi pensiamo che questo potrebbe o frenare o rallentare il decorso della patologia. Essendo un meccanismo nuovo, non ci sono farmaci utilizzabili all’uso, ecco perché è tutta una fase di ricerca che va fatta, su una prospettiva farmacologica di rispristino di un meccanismo alterato, di una condizione di normalità, di ritorno a uno stadio normale.

Ma perché utilizzare per lo studio gli animali nei laboratori?   

Purtroppo il loro utilizzo è ancora necessario perché non c’è una alternativa reale. E lo dico senza intendimenti polemici, assolutamente, perché nessuno scienziato è “contento” di lavorare sugli animali, e infatti ci sono anche gli obiettori di coscienza che lavorano esclusivamente sulle cellule su una piastra. Ma per quanto possano svilupparsi neuroni in coltura, non sarà mai un cervello reale tridimensionale, con i neuroni interconnessi tra di loro, che vanno a sinaptare con un neurone centrale eccetera, ne consegue che tutto questo ovviamente è perso; inoltre, un cervello strutturato è fatto da miliardi di cellule, e tanta complessità è impossibile da riprodurre in un vetrino o piastra da coltura. Alla fine resta la possibilità di utilizzare direttamente l’umano o ricorrere appunto agli animali. Noi sappiamo che nel 66% dei casi l’Alzheimer si sviluppa nelle donne e nel 33% è maschile, si verifica quindi un dimorfismo sessuale, e non sappiamo ancora esattamente il perché, con il sesso che è un fattore di rischio, non essendo equi partita la patologia (forse collegata alla menopausa e all’incidenza ormonale, forse alla malattia dell’anziano, ma non ci sono certezze), tutto questo non è mai riproducibile in vitro. Peraltro, anche i topi hanno una severità patologica maggiore e più veloce nelle femmine.

Ci sono studi e statistiche sulla diffusione della patologia almeno per macro aree geografiche?

Questo è un discorso che negli Stati Uniti è molto sentito, essendo una società molto più composita, perché si collega al loro approccio sia “razziale”, pessimo termine che loro usano, che agli studi genetici. Il problema però riguarda i “bianchi”, perché gli studi sono stati condotti in Europa e nel Nord America, quindi si tratta non di genetica dell’essere umano ma della popolazione ‘bianca’ per così dire, non avendo invece molti dati sulle popolazioni asiatiche e di colore. Ma durante la pandemia, dopo il caso di George Floyd, c’è molta più attenzione anche su questi aspetti. Ci si chiede infatti se i dati della popolazione bianca siano equiparabili a quella di colore, fino ad oggi dato per scontato, e non lo è, frutto di un atteggiamento “coloniale”. Mentre non sappiamo praticamente nulla sulla diffusione dell’Alzheimer di intere aree (ad esempio aborigeni australiani, popolazioni asiatiche, solo qualcosa sui cinesi). Insomma, c’è ancora troppa sproporzione di dati, peraltro pubblici ma caricati come Homo Sapiens, e questo resta un problema.

Quanto incide nella ricerca e nella prospettazione di future terapie e soluzioni farmacologiche, la differenza di genere?

Incide così tanto ed è un altro dei grandi problemi. Tutti gli studi fatti fino agli anni Duemila si riferiscono quasi totalmente agli uomini, topi maschi compresi, per la complicazione legata al ciclo femminile. Per essere più chiari, gli studi sulle donne sono più difficili, poiché ad esempio il dato ormonale già si presta a una variabilità essendo legato al ciclo femminile, mentre per metodo nella scienza si analizza una variabile alla volta, azzerando diciamo le altre (quindi stessa età, assenza di patologie eccetera), avendo tuttavia una varietà intrinseca che nella popolazione femminile è più alta. Per il topo femmina è ancora più complicato, nel senso che ha il ciclo ogni tre giorni, ragione per la quale è molto difficile avere un gruppo dal ciclo coordinato, pertanto si è fatto un discorso di preferenza di genere, il topo maschio, e in parte lo si fa ancora. Ma l’Ente americano per la ricerca (National Insitutes of Health, NIH) oggi pretende che gli studi vengano eseguiti su ambo i sessi per l’erogazione dei fondi. E anche io credo che questo approccio di studio dovrebbe essere la norma.

Nella comparsa ed evoluzione dell’Alzheimer, oltre al fattore età, esiste una correlazione con precedenti eventi traumatici nel corso della vita della persona (come gli incidenti)?

In forma più diretta con il Parkinson si (come non ricordare Cassius Clay, il Parkinson del pugile, appunto). In presenza di microtraumi è possibile che certi neuroni “muoiano”, e soprattutto quelli del Parkinson risultano molto sensibili e vulnerabili a questo. Con l’Alzheimer è assai raro.

Amplio l’orizzonte. Nel 1910 la vita media in Italia era di poco oltre i 40 anni, oggi è più di 80, e il genere femminile è di molto più sopra. Semplificando, come si spiega il diffondersi nell’opinione pubblica, sostenuto da certi media e nei social, del pensiero antiscientifico?

Bella domanda (e sorride). Bisogna prestare attenzione al fatto che, a livello statistico (per cui non è sempre vero per ciascuno), le persone più antiscientifiche sono proprio quelle che non usufruiscono della scienza, cioè sono soprattutto giovani e che stanno tendenzialmente in salute (“perché dovrei vaccinarmi se sto bene ora?!”); ma quando hanno bisogno di medicine e cure, d’improvviso cambiano. Ho l’impressione che in loro ci sia una sorta di immanentismo, che guardino solo all’immediato presente e non in prospettiva. Così anche a livello di prevenzione: io faccio un sacrificio adesso per avere un beneficio domani. Magari i sociologi possono dirci perché mai alla gente oggi non sembri interessare il futuro (ad esempio: che mi importa del debito pubblico se questo andrà a impattare tra venti anni o più?). E se non ha senso oggi, lo si ritiene perciò inutile e quindi senza valore, che non va riconosciuto.

I ricercatori, che passano del tempo importante nel chiuso dei loro laboratori, sono individualisti oppure avvertono la necessità di aprirsi al confronto con la comunità internazionale dei loro colleghi?

Assolutamente si, è una parte fondamentale del nostro lavoro. È molto comune fare conferenze scientifiche piccole o grandi che siano, da tutto il mondo, per confrontarsi talvolta pure su dati inediti, anche con domande e risposte, oltre al tempo informale per i rapporti che si innescano e si alimentano, oltre agli stimoli e alla ispirazione che possono conseguirne. Certo, occorre affrontare dei costi. Per quanto mi riguarda, ogni anno partecipo a tali incontri.

Nella ricerca, quanto incide e in cosa il finanziamento dei privati?

Negli Stati Uniti incide tantissimo: la Fondazione di Bill Gates, una delle più grandi al modo, si occupa in prevalenza di tubercolosi, malaria, malattie infettive endemiche in Africa; quella di Michael J. Fox per la ricerca sul Parkinson, altre fondazioni di molti attori hollywoodiani anche sul fronte Aids, e tante altre ancora. Tuttavia, l’80% dei fondi provengono dal pubblico, come in Europa e da programmi gestiti dal pubblico, relativamente a patologie assai frequenti nella comunità, come i tumori. Ma resta vero che quello dei privati è più riferibile ad ambiti settoriali e specifici di ricerca, come la Telethon per le malattie rare, proprio perché è difficile che le erogazioni possono agevolmente riguardare patologie non comuni nella comunità, le quali meritano comunque sempre attenzione e di essere seguite e curate. In sintesi, il privato è molto importante, a maggior ragion in branche di nicchia della ricerca.

Spieghiamo perché un farmaco talvolta costa una enormità?

Ci sono vari motivi. Lanciare nel mercato un nuovo farmaco non è come proporre un nuovo cellulare, che può essere venduto immediatamente, facendo scegliere all’acquirente se comprarlo o meno. La commercializzazione di un farmaco risponde a criteri legislativi molto rigorosi, proprio per evitare che danni, tossicità ed altri effetti collaterali superino le proprietà terapeutiche e curative. Si è creato in pratica un sistema di garanzie per cui a volte occorrono dieci-venti anni prima che sia messo in commercio. Di solito, si fa uno studio clinico in tre fasi con alcune migliaia di persone: prima, si recluta un gruppo di persone sane, mai pazienti all’inizio, tutte giovani e si testa la tossicità, e supponiamo che duri un anno o due; seconda fase, in un gruppo piccolo di persone si testa il dosaggio e il riscontro di tossicità; ultima fase, si confrontano i dati con l’effetto placebo o con un altro farmaco preesistente (solo nel caso che sia migliore si ottiene l’approvazione). È capitato che aziende siano fallite prima di arrivare alla vendita del nuovo “prodotto”, in un tempo ragionevole, pur sopportando costi esorbitanti, anche miliardi di dollari. Bisogna poi aggiungere i tempi di verifica del passaggio della capacità della molecola dagli animali all’umano, a volte lunghi, i costi della stessa produzione e l’accoglienza nel mercato, con percentuale di fallimento altissima. Insomma, non si può mandare nel mercato un “prodotto” che non è testato. D’altronde, ci piaccia o no, l’azienda è nata per fare profitti e investe in tal senso, pensando a un ritorno dai costi anche in tempi relativamente brevi, anche perché dopo 25 anni il brevetto scade e poi si liberalizza la produzione dei cosiddetti farmaci generici a costi bassissimi. 

È possibile ipotizzare ragionevolmente quando si avranno farmaci efficaci contro l’Alzheimer?

Recentemente ho partecipato a una conferenza specifica a Lisbona, e prima ad Amsterdam, con diecimila persone, dove ho registrato un fermento notevole, anche per gli studi clinici in corso che, dai dati preliminari, hanno lasciato intravedere buone prospettive. Negli USA è stato già autorizzato un farmaco biologico, un anticorpo approvato per la prima volta in assoluto per l’Alzheimer, che pur non curando la patologia, la rallenta, offrendo così agli anziani altri anni a livello cognitivo normale, e non sembri poco per una malattia devastante non soltanto per i pazienti ma anche e per le famiglie, coniuge e figli che devono accudirli. Bisogna anche considerare che la patologia, relativamente comune nell’anziano, è stata scoperta nel 1906 dallo psichiatra e neuropatologo tedesco Alois Alzheimer (1864-1915),e quindi dopo circa 120 anni non abbiamo ancora un farmaco. Tuttavia, pur in assenza di terapia, i tantissimi studi che si stanno effettuando già forniscono prospettive incoraggianti e non sembri un azzardo se dico che nel volgere di pochi anni uscirà fuori qualcosa di importante, non palliativa, pur non essendo definitivamente risolutiva.  

Salvatore Verde ©

Note biografiche di Pasquale D’Acunzo

Formazione, ricerca e lavoro, conferenze e seminari, pubblicazioni, riconoscimenti e onorificenze.

Le malattie neurodegenerative, il neurosviluppo e i meccanismi molecolari di dipendenza da sostanze psicotrope sono praticamente da sempre i campi di interesse primario della ricerca del Pasquale D’Acunzo, giovane scienziato di fama mondiale, che lavora a New York da sei anni. Nel 2021 ha scoperto una nuova tipologia di vescicole extracellulari che ha denominato ‘Mitovescicole’.

Nato nel 1988, e dopo la Maturità scientifica al Liceo “Enrico Fermi” di Policoro, D’Acunzo consegue con il massimo dei voti e lode la laurea triennale (2007) all’Università Statale di Milano, campo di studi Biotecnologie Mediche, con una borsa di studi Erasmus per meriti accademici, cosa che gli ha permesso di frequentare il laboratorio professionale della Prof.ssa Judith V.M.G. Bovée nell’Università di Leiden (Paesi Bassi). Con la laurea Magistrale (2010) all’Università Vita-Salute San Raffaele del capoluogo lombardo, sempre con 110 e lode, si consolida e si specifica l’indirizzo di studi in Biotecnologie Mediche, Molecolari e Cellulari, iniziando le ricerche nell’Ospedale San Raffaele durante il tirocinio dell’ultimo anno del corso di laurea (e proseguite anche dopo per mesi). Il Dottorato di ricerca (2012) è svolto all’Università degli Studi di Roma Tor Vergata con studi in Biologia Cellulare e Molecolare, con un primo postdottorato nell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù della Capitale, prima del trasferimento negli Stati Uniti.

Tra i riconoscimenti e le onorificenze: 2021- Young Investigator Award – International Society for Extracellular Vesicles (ISEV);2021 – Encomio solenne della Giunta Comunale di Tursi: “Per aver dato lustro alla città di Tursi ed alla cittadinanza con azioni, studi e ricerche volte al miglioramento e al mantenimento della condizione umana”; 2022 – Featured Paper of the Week – Nature Protocols,scelto dalla prestigiosa rivista scientifica internazionale come ‘articolo scientifico della settimana’ (‘featured paper of the week’); 2023 – vincitore dell’edizione 2023 del Premio Lucani Insigni (L.R. n.18/2005), “per il suo contributo nel campo della ricerca scientifica”, così il riconoscimento regionale assegnato ogni anno a sei personalità che si sono distinte nei vari ambiti professionali e sociali; il Consiglio regionale della Basilicata con tale iniziativa premia personalità lucane e straniere, residenti in Italia o all’estero, che hanno dato il proprio contributo nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario e che si sono impegnate nella diffusione e nella conoscenza dell’identità lucana.

Da annotare le seguenti partecipazioni a conferenze e seminari:

2023 – Parigi: Jérôme Lejeune Foundation (speaker invitato)

2023 – Virtuale: IRCCS Fondazione ‘Casimiro Mondino’, Pavia (speaker invitato)

2023 – Roma: 1st International Society for Extracellular Vesicles (ISEV) Symposium on

           Extracellular Vesicles in Nervous Systems (EViNS) (selezionato come speaker)

2023 – Amsterdam: Alzheimer’s Association International Conference (AAIC) (poster)

2022 – NYU Grossman School of Medicine – New York City: NYU Psychiatry Day (selezionato

            come speaker).

2021 – Virtuale: Student Network on Extracellular Vesicles (SNEV) (speaker invitato).

2021 – Temple University, Philadelphia (USA): Alzheimer’s Center at Katz School of Medicine

            (speaker invitato).

2021 – Virtuale: Extracellular Vesicle Club (dopo la partecipazione all’ “ISEV2021 Annual

            Meeting”, è stato invitato a tenere un webinar on-line gratuito sulle mitovescicole (registrato

            e poi caricato su YouTube: https://www.youtube.com/watch?v=Vh3sZ-8gOrk (in lingua

            inglese).

2021 – Virtuale: 3rd T21RS International Conference, presentazione di un “Data Blitz”.

2021 – Virtuale: 10th International Society for Extracellular Vesicles (ISEV) Annual Meeting,

            (selezionato come speaker), tra le migliori quattro relazioni, ‘Featured Abstract Award’,

            discussa in sede plenaria.

2021 – Virtuale: 15th AD/PD International Conference on Alzheimer’s and Parkinson’s Diseases

            (selezionato come speaker).

2020 – Virtuale: CSHL Meetings – Neurodegenerative Diseases: Biology & Therapeutics,

            presentazione (poster).

2020 – Virtuale: 9th International Society for Extracellular Vesicles (ISEV) Annual Meeting,

            (selezionato come speaker, in aggiunta alla presentazione di un poster).

2020 – New York City (USA): The New York Academy of Sciences (NYAS) – Mitochondria in

            Complex Diseases, presentazione (poster).

2019 – Chicago (USA): Neuroscience 2019,presentazione (poster).

2019 – New York City (USA): The New York Academy of Sciences (NYAS) – Extracellular

            Vesicles in Diagnostics and Therapeutics,presentazione (poster).

Le pubblicazioni di Pasquale D’Acunzo includono:

2024 – Mitovesicles secreted into the extracellular space of brains with mitochondrial dysfunction

           impair synaptic plasticity;

2024 – Apolipoprotein E2 expression alters endosomal pathways in a mouse model, with increased

           brain exosome levels during aging;

2024 – Minimal information for studies of extracellular vesicles (MISEV2023): From basic to

           advanced approaches;

2023 – Tau filaments are tethered within brain extracellular vesicles in Alzheimer’s disease;

2023 – Cocaine perturbs mitovesicle biology in the brain;

2022 – Isolation of mitochondria-derived mitovesicles and subpopulations of microvesicles and

           exosomes from brain tissues;

2022 – Sex Differentially Alters Secretion of Brain Extracellular Vesicles During Aging: A

           Potential Mechanism for Maintaining Brain Homeostasis;

2022 – Cocaine modulates the neuronal endosomal system and extracellular vesicles in a sex-

           dependent manner;

2021 – Characterization of a natural variant of human NDP52 and its functional consequences on

           Mitophagy;

2021 – c-FLIP regulates autophagy by interacting with Beclin-1 and influencing its stability 

           AMBRA1 regulates cyclin D to guard S-phase entry and genomic integrity;

2021 – Cerebellar Kv3. 3 potassium channels activate TANK-binding kinase 1 to regulate

           trafficking of the cell survival protein Hax-1;

2021 – Mitovesicles are a novel population of extracellular vesicles of mitochondrial origin altered

           in Down syndrome;

2019 – Enhanced generation of intraluminal vesicles in neuronal late endosomes in the brain of a

           Down syndrome mouse model with endosomal dysfunction;

2019 – Reversible induction of mitophagy by an optogenetic bimodular system;

2018 – AMBRA1 controls regulatory T-cell differentiation and homeostasis upstream of the

          FOXO3-FOXP3 axis;

2018 – HUWE1 E3 ligase promotes PINK1/PARKIN-independent mitophagy by regulating

           AMBRA1 activation via IKKα;

2018 – AMBRA1-Mediated Mitophagy Counteracts Oxidative Stress and Apoptosis Induced by

           Neurotoxicity in Human Neuroblastoma SH-SY5Y Cells;

2014 – A conditional transgenic reporter of presynaptic terminals reveals novel features of the

           mouse corticospinal tract. (s.v.)

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