TURSI – La massima considerazione storica della Città di Tursi, si è avuta tra la metà del XVI secolo e quello successivo, per una serie di ragioni. Su tutte: la traslazione con sede definitiva della diocesi di Anglona a Tursi (nella Bolla di papa Paolo III, del 25 marzo 1546, è definito “paese popoloso e florido nelle arti liberali e nelle scienze”); l’affermarsi della indiscussa signoria dei Doria di Genova, come duchi di Tursi; il favorevole andamento demografico e il costituirsi di un ceto nobiliare. Con tutto quello che tali eventi hanno potuto significare a livello religioso, economico, sociale e civile. Tursi era un centro di prima grandezza in Basilicata, quasi come Matera popoloso (8.550 anime nel 1416; nel 1561 si calcolavano oltre 10.780 abitanti, picco mai più eguagliato; meno di duemila nel 1728). Vi erano oltre cinquanta famiglie di rango elevato, quaranta dottori in legge nel 1652, una vera moltitudine di notai e avvocati, oltre ai medici e poi i vari artigiani; aveva un ampio gruppo consolidato di famiglie nobili e la vita cittadina si realizzava, con le molte caratteristiche e le tante contraddizioni di un abitato e di una società al passo con i suoi tempi. Senza dimenticare o sottovalutare l’analfabetismo dominante e la povertà dilagante, l’elevato tasso di mortalità soprattutto infantile, la promiscuità abitativa delle genti povere con gli animali, le precarie condizioni igieniche, la sostanziale impotenza di fronte alle malattie, la diffusione della superstizione e di pratiche magiche, la difficoltà e l’insicurezza del viaggiare, il ricorso insistito alla violenza. E tutto questo nella persistenza storica delle differenze di casta, ceto e classi, ma anche nell’assestamento dei nuovi equilibri con le disuguaglianze, oltre all’abituale vita di stenti e di miseria della maggioranza dei sottoposti, con l’esasperazione dello sfruttamento della servitù, dei lavoratori della terra, dei pastori e dei prestatori in genere di manodopera.
Ovviamente, c’era pure un clero attivo, dotato e importante; latamente, una gran quantità di ecclesiastici secolari e regolari, chierici, religiosi, suore, novizi, aspiranti, seminaristi, gerarchicamente ordinati, tutti al servizio del prossimo, per la meritoria cura delle anime ispirate o smarrite e per le quotidiane incombenze. A parte il distante santuario della Madonna di Anglona, molto ruotava intorno, soprattutto, ai tre capitoli delle grandi chiese parrocchiali, la cattedrale diocesana dell’Annunziata, la chiesa di San Michele Arcangelo e la Collegiata Insigne di santa Maria Maggiore, quest’ultima nell’antico rione della Rabatana, con le relative cappelle al loro interno e quelle altre annesse, non di rado, ai palazzi nobiliari (dei Brancalasso, Latronico, Capitolo, Margiotta-Ferrara, Camerino ecc.). Si aggiunga l’opera apprezzabile anche nelle chiese di San Filippo Neri e di Sant’Anna (fondata nel 1627, ma “oggi diruta”, scrive il Nigro[1]), in quelle sparse nelle campagne del vasto territorio, e poi la vita incarnata dai frati, dentro e fuori dei Monasteri dei Mendicanti, il convento degli Zoccolanti o dei Minori osservanti di San Francesco (per il Nigro “Esso fu fondato nel 1441 dal Conte di Tursi Niccola”, ma non convince per l’inesistenza di fonti) e dei Cappuccini di San Rocco (nel 1568). Anche se non sempre tutti i monaci potevano essere un esempio di raffinata virtù, pare, come quelli del convento di San Sebastiano e i Domenicani, soppressi, anzi “schiantati” nel 1652 da papa Innocenzo X, i quali avevano sicuramente anche problemi di sopravvivenza economica. Non certo in ultimo, la formazione delle nuove generazioni non soltanto tursitane, all’interno del seminario, della Congregazione dell’Oratorio di san Filippo Neri (“Fu dotato dal Dottor Giuseppe Antonio Brancalasso come per istrumento rogato da Notar Gianfrancesco Vallicenti a 25 Maggio 1652”, Nigro) e del Conservatorio delle nubili donzelle (ancora il Nigro: “sotto la regola di San Domenico… fondato e dotato di tutti i suoi beni stabili da D. Francesco Antonio Andreassi, che convertì la sua casa palazziata… ciò fu nel 1666”). Da ricordare che in una cappella della Maddalena si tenne una riunione, propiziata da Giuseppe Brancalasso[2] (nel 1652), che favorì poi la nascita in Città della Congregazione di san Filippo Neri.
Ma nei secoli XVI-XVII, all’incirca, emergono e svettano figure di prim’ordine, come Giulio Antonio Brancalasso, Francesco Brancalasso, P. Andrea Picolla, Francesco Antonio Andreassi, i fratelli Brancalasso, Tommaso e i canonici Don Filippo, l’abate Don Carlo e Don Nicolò, Michelangelo Latronico, Ippolita Pope Bitonte, Padre Antonino, don Giulio Cesare Clarudia/Claridia.
Importata dalla Sardegna, la grande e terribile peste degli anni 1656-58 arrivò all’improvviso a Napoli e da lì si diffuse rapidamente in quasi tutte le province del Regno. Come diverse altre volte nei secoli precedenti, qualcosa sembrò cambiare almeno nel breve termine, successivo al tragico periodo. E anche se la propagazione della pestilenza non fu omogenea nella regione Basilicata, comunque ne accentuò di parecchio lo spopolamento. La già calante popolazione tursitana si ridusse comunque più della metà, secondo alcuni passò da 4.000 abitanti a 1980[3], mentre un terzo dei restanti fuggì altrove, nell’entroterra lucano, e molti andarono a Trecchina. Lo storico locale Rocco Bruno[4] (Tursi, 05/01/1939 – 06/01/2009) ha ipotizzato solo a Tursi 5.000 morti, deducendolo da ipotesi statistiche, ma è difficile sostenerlo, essendo tale cifra non confermata dall’andamento demografico, in netto calo proprio in quegli anni e già nei decenni precedenti. Vittime della peste sarebbero stati ricchi e poveri, praticamente di ogni età, causando una crisi di manovalanza senza precedenti, fatto non secondario, con riflessi negativi sulla produzione e quindi per la economia dell’intera Città.
La tragedia avrebbe colpito quasi tutti i nuclei familiari, anche nelle frazioni di Caprarico e Panevino e nelle pur isolate campagne, dove si pensò di fuggire (la cosiddetta “fuga dei nobili”) per ripararsi dal contagio, infettando così tali residenze e le masserie con gli addetti alla conduzione delle varie attività. Già esposta alla ordinaria fragilità del terreno e non immune dalle disgrazie naturali, la città di Tursi era impotente e smarrita di fronte agli appestati, ipotizzando gli untori e il maligno, ma con spirito di rassegnazione davanti al “flagello divino”, come usava dire e come ritenevano da più parti, non soltanto preti e frati. Le stesse chiese erano luoghi di speranza (e di contagio al contempo, per il contatto e l’affollamento), mentre ai santi si destinavano suppliche ininterrotte. La nomina di San Filippo Neri quale “protettore principale” di Tursi sarebbe anche conseguenza di quel periodo (scrivono alcuni e vuole la tradizione, ma i tempi intercorrenti sono sfasati), essendo stata proposta dalla Citta (1654) al Vescovo, mons. Francesco Antonio De Luca (nativo di Molfetta), il quale la sollecitò al clero che l’accettò il 31 agosto del 1665; il Nigro, inoltre, informa che “l’effetto riuscì nel 1656 in occasione di peste, che il Regno di Napoli invase” e solo nel 1672 ci fu la prima processione del Santo in Cattedrale, con la statua lignea, era vescovo allora mons. Matteo Cosentino (della provincia di Cosenza).
Soprattutto i notabili e la Chiesa si posero concretamente il problema di come arginare la diffusione, curare i malati e seppellire i cadaveri (nelle fosse comuni), al di là delle precauzioni empiriche, improntate a prudenza e cautela, e degli accorgimenti messi in atto dalla popolazione. Il ripensare alla propria sicurezza per limitare i danni, in termini organizzativi accettabili, rese forte l’idea e l’esigenza di istituire l’ospedale tursitano, che fu collocato nella chiesa della Rabatana, il quartiere più antico e a maggior densità abitativa. L’Ospedale della Maddalena / di S. Maria Maddalena / di Santa Maria Maddalena fu eretto dentro la chiesa Collegiata di Tursi, finanziato anche con offerte, donazioni e lasciti, finanche con il potere di imporre un censo, attraverso ipoteche sulle terre, di acquistare e vendere beni in loco e fuori. Una collocazione da intendersi, forse, nel complesso edilizio e strutturale della chiesa, o in stretta prossimità, non già nello specifico luogo di culto, anche se nella Collegiata della Rabatana vi era già la cappella della Maddalena o di Maria Maddalena (occorre ricordare anche che un’altra isolata cappella di Santa Maria Maddalena Penitente era collocata dove poi è sorto il convento della Congregazione dell’Oratorio di San Filippo Neri, che la inglobò nella struttura conventuale). L’ospedale tursitano, non necessariamente specializzato, doveva mantenere di certo la tradizionale impostazione caritatevole e di mutuo sostegno, senza essere qualcosa di gigantesco, ma dove ragionevolmente si poteva trovare conforto, assistenza e cura, avendo comunque dei costi quotidiani di mantenimento.
La gestione era affidata a un “Procuratore”, affiancato dai “Deputati”, sorta di comitato o consiglio direttivo, e infine dai “Confratelli”, cioè i soci finanziatori. Almeno nella fase iniziale, l’Ospedale della Maddalena fu rappresentato, dal procuratore Donato D’AMATO (1665) e dal “magnifico clerico Giuseppe Panevino, oltre ad avere il dottor Matteo Panevino nel suo consiglio. Procuratore dell’Ospedale di S. Maria Maddalena fu anche Paolo TARALLO (1693), mentre tra i deputati figuravano l’avvocato Giulio Cesare Donnaperna, Fulvio Asprella, il rev. canonico don Giovanni Leonardo de Mellis, don Filippo de Martino. Altro procuratore dell’Ospedale di Santa Maria Maddalena fu Simone GENTILE, procuratore (1694). Gli subentrò come procuratore il rev. don Giovanni FUSCO e tra i “deputati” il dottore canonico don Giovan Battista Panevino e il rev. don Antonello Rugascio (1700), il canonico don Melchiorre Donnaperna e il capitano Scipione Panevino.
Agli inizi del XVIII secolo, sembra precisarsi meglio anche l’istituzione “finanziaria” che sorregge l’ospedale, con il Sacro Monte dell’Ospedale di Santa Maria Maddalena, eretto anch’esso dentro la chiesa Collegiata della Rabatana di Tursi. Nel 1701, il Sacro Monte dell’Ospedale era così costituito: deputati del Monte il dottor canonico Giosué Quaranta e Giovan Battista Panevino e Baldassarre Donnaperna, entrambi U. J. D.; confratelli: i due U.J.D. Gaspare Donnaperna e Giulio Cesare Donnaperna, il capitano Francesco Antonio Orlando e il capitano Scipione Panevino, i clerici Giovan Francesco Antonaccio e Leonardo Antonaccio, Stefano Arcuro, Giovanni Asprella, Gaetano Basile, Francesco Antonio Gentile e Domenico Panevino, il dottor Filippo Giuseppe Spera e Nicola Asprella, Marcello Basile, Francesco Antonio Battifarano, Giovanni Calitri, Gian Lorenzo di Pizzo, Nicola Donnaperna, Marco Gagliardo, Gaetano Gentile, Simeone Gentile, Pietro Marino, Nicola Antonio Montanaro, Andrea Pacilio, Francesco Antonio Panevino, Michele Panevino, Giovan Battista Russo, Leonardo Sassone, Giuseppe Sinisi, Geronimo Valentino e diversi altri. I confratelli, proprio in quel periodo hanno ceduto a favore del preposito e dei canonici della chiesa Collegiata il dominio della cappella della Maddalena.
L’esperienza, ancorché impegnativa e costosa, dopo mezzo secolo circa si incrinò e qualcosa nei rapporti divenne insanabile, tanto che, ai primi del 1700, si sancì il definitivo superamento. Nacque subito altrove un altro ospedale, con il concorso della Chiesa locale mediante il protagonismo più avanzato della nobile e grande famiglia Panevino, che aveva il suo enorme palazzo nobiliare nei pressi della chiesa di S. Filippo Neri. Nacque così l’Ospedale di San Giovanni Battista di Tursi e ne fu procuratore, negli anni 1728-1730 e 1740-1741-1743, il rev. don Camillo Panevino. (Cito, qui e altrove nel testo, da documenti ancora inediti della pugliese Rosanna D’Angella, studiosa grandissima e straordinaria ricercatrice d’archivio, autrice di una monumentale ricerca sulla famiglia Panevino, commissionatale negli anni scorsi da John Giorno – New York, 4 dicembre 1936 – 11 ottobre 2019). Tale Ospedale fu attivo per un ventennio. Nel 1750, invece, l’arciprete don Filippo Panevino, in un atto è citato in qualità di “deputato e sopraintendente del Pio Ospedale di Tursi”. Non è chiaro se l’Ospedale di San Giovanni Battista e il Pio Ospedale fossero due distinti istituti, e non è sicuro neppure dove fossero collocati, eventualmente. Tuttavia, per quanto riguarda il primo, ci può venire in soccorso la toponomastica, tenendo a mente che lo stradario è mutato dopo la proclamazione del Regno d’Italia (avvenuta con la legge 17 marzo 1861, n. 4671)
Dagli inizi del XIX secolo si perdono le tracce della struttura ospedaliera e, come spesso accade, sparita la cosa sopravvive il nome. Così annotano, nel 1811, il notaio Filippo Maria d’Aloisio e lo Stato Civile del Comune: “… domiciliati in Tursi in strada Ospedale senza numero”. Nel 1820, lo stesso Ufficio comunale precisa e inverte la scrittura: “… in strada S. Giovanni (Ospedale)”. Da allora in poi, concretamente, si usano entrambe le indicazioni e talvolta (1824) “strada Ospedale (S. Giovanni)” o anche “strada Santo Giovanni senza numero”(1826). Salvo errori, possibili ma improbabili, la chiesa di S. Giovanni Battista era quella dei Panevino, situata poco sotto il palazzo della famiglia (poi trasformata in uso abitativo e attualmente di proprietà della maestra Maruzzella Ferrara, in via Vittorio Emanuele); appena sottostante, ha trovato collocazione l’ospedale con l’annessa chiesetta dell’Addolorata (anch’essa poi civica abitazione, oggi della famiglia di Antonio D’Amore, destino analogo a quello del coevo episcopio, nell’attuale via L. Manara, e di recente della cappella di santa Lucia, nel rione S. Filippo N.).
Alla fine degli anni Cinquanta del Novecento, un ultimo tentativo di offrire alla comunità e al territorio di Tursi una stabile struttura sanitaria. Fu istituito un altro ospedale, nel convento di S. Rocco dei Cappuccini, su iniziativa del vescovo (1947-1956) della diocesi di Anglona e Tursi, mons. Pasquale Quaremba (Muro Lucano, 19/7/1905-16/12/1986). Presule dotato di bontà e di grande carisma, oltre che di forte personalità e lungimiranza (fu anche soprannominato il “Vescovo Ingegnere”), tuttavia, come sovente capita, proprio per questo fu guardato con un alone di sospetto minoritario di pochi, ma non se ne curò. Invece, si premurò, tra l’altro, di far arrivare la telefonia a Tursi (l’ufficio era nell’ex municipio di via Pietro Giannone, dov’era la ex scuola dell’Infanzia “Carmela Ayr”), fondò la prima Scuola Media in Basilicata e convinse il Genio Civile di Matera a intervenire con imponenti lavori murari di protezione dell’abitato, dando così il via alla costruzione della prima piazza, tra la Cattedrale e il torrente Pescogrosso. La struttura ospedaliera di S. Rocco durò un decennio e non sopravvisse di fatto al trasferimento a Gallipoli (LE) dell’amatissimo Vescovo Quaremba, la memoria del quale è consegnata alla storia di questa Città e della stessa Diocesi, per sempre.
Mutate le condizioni storiche, politiche ed ecclesiastiche, con la ricostruzione materiale e morale dell’Italia repubblicana, arrivò il cosiddetto boom economico e il miglioramento generalizzato delle condizioni di vita. La strategica centralità territoriale si sposta nel Metapontino e verso la costa Jonica. Con la nascita dell’Ospedale di Policoro, svanisce definitivamente un sogno accarezzato per secoli. A Tursi resta, per ora, il Distretto sanitario, per le visite specialistiche (gli esami di laboratorio settimanali e la guardia medica notturna e festiva). Al geometra Vincenzo Sarubbi, allora presidente del Comitato dei garanti della ASL 7 di Montalbano Jonico, il merito di averci creduto e di essere stato l’artefice della istituzione. Iniziata con la delibera del 22/7/1992, sulla “Distrettualizzazione”, la procedura è stata portata a compimento dal sindaco Giuseppe Cassavia, nel 1994, nell’attuale sede, poi dedicata all’indimenticato Vincenzo Romano (Tursi, 24/12/1945 – 31/10/2017), medico cardiologo, che ne è stato a lungo direttore. Comunque, è un buon presidio, e non sembri poca cosa.
Che l’ospedale fosse un’aspirazione antica lo ribadisce anche il primo grande storico di Tursi, Antonio Nigro (Tursi, 1764 – 19/05/1854). Egli ci informa dell’esistenza di un ospedale dipendente dal Capitolo della Cattedrale dell’Annunziata, “per soli infermi fondato da un certo Cupidauro nel 1583… incorporato alla beneficenza, le cui rendite sono state assegnate all’Orfanotrofio di Montescaglioso, non ostante che sarebbe necessario per li poveri della città, che essendo infermi ivi trovano letto, medicine, e medico Cerusico”. Egli poi aggiunge: “La Chiesa Collegiata insigne sotto il titolo di S. Maria Maggiore e volgarmente della Madonna della Cona… (ha) una catacomba o sotterraneo Kypogeum… in esso vi si osserva un altare a Santa Maria Maddalena penitente dedicato, dalle di cui rendite si manteneva un ospedale, credo di infermi, oggi non più esiste”. (Questione: l’oggi di cui parla il Nigro è riferito al tempo della scrittura del testo oppure della pubblicazione del libro, cioè il 1851? Ritengo non coincidenti le due fasi, di parecchio).
Infine, da uno scambio di vedute con Gianluca Cappucci, docente di Lettere della scuola Secondaria, scaturisce qualcosa di più di una mera ipotesi sulla istituzione di uno o addirittura più “ospedali” a Tursi, in epoca medievale, sempre legati alla Maddalena nella chiesa della Rabatana (ma poi forse anche nella chiesa, in seguito cattedrale, dell’Annunciazione?). Dai documenti trovati dallo studioso tursitano, si desume come tale culto fosse favorito tra gli altri dal devotissimo re Carlo II D’Angiò (1254 – Napoli 1309), ma pure dal figlio Re Roberto D’Angiò (Torre di Sant’Erasmo, 1277 – Napoli, 1343) con la moglie Sancha d’Aragona (sposata in seconde nozze, nel 1304). Ai primi decenni del XIV secolo risale il famoso Trittico della Scuola (Napoletana) di Giotto, per alcuni del Maestro di Offida (vissuto, probabilmente, anche nella seconda metà di tale secolo), collocato nella chiesa della Rabatana. L’opera d’arte intitolata “Madonna/Vergine col Bambino”, nelle due pale laterali ricorda S. Giovanni Battista e la Maddalena, perciò ritengo non casuale l’esistenza, nella cripta della chiesa, un altare, la stessa cappella dedicata alla Maddalena e l’ospedale con il suo nome. Che ci sia un collegamento con la struttura di accoglienza, conforto e cura di epoca successiva è tutto da dimostrare, ma sicuramente indica un percorso antecedente che va molto approfondito, come Cappucci farà nel suo libro, in fase di ultimazione.
Salvatore Verde ©
NOTE
[1] Antonio NIGRO, Memoria Topografica Istorica Sulla Città di Tursi E Sull’Antica Pandosia Di Eraclea Oggi Anglona, Napoli, Tipografia di Raffaele Miranda in Largo delle Vigne, 60, 1851 (II Edizione a cura di Battista D’Alessandro, ArchiviA, Rotondella, MT, 2009).
[2] Testo inedito: Fedel memoria degli Uomini Illustri, Parenti, Stabili, Urbani e Rurali, Jus, Doti, Ragioni, Servitù, Prelazioni, Cappellanie, Benefici e sue Rendite, Notizie antiche appartenenti alla gentilizia famiglia BRANCALASSO, che ora si rappresenta dalli fratelli, Dottor Don Tommaso, Dottori Canonici della Cattedrale: Don Filippo, Abate Don Carlo e Don Nicolò Brancalasso, registrata nel 1744, trascrizione notevole del manoscritto a cura di Ambra PICCIRILLO, erede con il coniuge Ciriaco SCIARRILLO BRANCALASSI della grande famiglia Brancalasso, la quale annovera altri discendenti a Tursi. <<Il Signor Giuseppe Brancalasso, padre del Padre Ambrogio Brancalasso Priore della Certosa della Padula, e cugino del Don Camillo, vivendo questo separatamente nel Palazzo, ove abita la famiglia rappresentante, e vedendosi privo di prole, solamente, come si è detto, li era restato nel chiostro unico figlio, dandosi tutto allo spirito per la rarità dei suoi costumi e per l’ottimi sentimenti di buona vita, e dottrina alli 25 di maggio dell’anno 1652, coll’assemblea di più sacerdoti, ed amici spirituali, dentro una Cappella sotto il titolo di Santa Maria Maddalena, quivi radunato fè un’ampia donazione per mano del Notaio Vallicente, di molti beni stabbili, e mobili per fondazione di una Congregazione erigenda, ed applicarsi tutti detti stabili per l’erezione della medesima; com’ in effetto nel detto anno il Don Signor Giuseppe fè partire un dei sacerdoti amici per le vicinanze di questa provincia per vedersi informato, ed indagare la più perfetta Congregazione, e giunto in Armento, ove trovò più sacerdoti, che stavano applicati ad erigere la Congregazione di San Filippo Neri ed avuti con detti discorsi, si dissero, con queste parole: “bisogna apporgiarci ad un albero forte” qual era S. Filippo Neri.>>
[3] Michele STRAZZA, La peste del 1656 in Basilicata, Regione Basilicata Notizie, Consiglio Regionale della Basilicata, pp. 124-127
[4] Rocco BRUNO, Storia di Tursi, Lino-Tipo Policarpo, Ginosa, TA, 1977; Romeo Porfidio Editore, Moliterno, PZ, 1989; edizione aggiornata a cura del figlio Gaetano BRUNO, con Gianluca CAPPUCCI, Waltergrafkart, Moliterno, 2016.