Culto, nome e toponomastica di santa Caterina da Siena a Tursi

Diocesi - Chiesa Storia di Tursi
Una raffigurazione di santa Caterina da Siena

C’è stato un tempo nel quale, con tutta la sua peculiare identità, le vicende di Tursi erano pienamente nel flusso della storia, e non al riparo da essa. Nello scenario regionale, allora ben oltre gli attuali confini consolidati, un ruolo primario fu svolto dalla diocesi Anglonensis e/o Tursiensis, anche e soprattutto nelle relazioni con Roma e nella espansione capillare del proprio messaggio salvifico nelle periferie meridionali,  ma pure nel consolidamento del proprio potere e nel rapporto con i feudatari locali e con la stessa Università (Comune) di Tursi. Nulla di particolarmente eclatante, sia chiaro, perché il tutto rifletteva l’andamento altalenante di una diffusa situazione generale, che era la logica conseguenza del potere temporale dei Papi e quindi della Chiesa nelle sue articolazioni, tenendo pure conto delle diverse dominazioni, dei potentati locali e della sottomissione della popolazione, povera, analfabeta e senza diritti.

La difficoltà oggettiva, per noi contemporanei tursitani, è rappresentata dalla stessa (in)capacità di comprendere quanto sia realmente accaduto e, a volte, si stenta perfino a credere a ciò che invece la storia ben documentata ci dimostra e ci ricorda. Un piccolo esempio di quanto i tursitani fossero a tutti gli effetti non orientati sempre e soltanto da una visione localistica, religiosa in questo caso, ci viene probabilmente anche dal culto di santa Caterina da Siena (si festeggia il 29 aprile) e dai risvolti concreti della sua spiritualità, che furono ben compresi non solo dai suoi contemporanei, molti dei quali ne riconobbero subito, praticamente in ogni dove, la passione totalizzante e il forte riverbero di santità. E sia pure in minima parte, ciò accadde anche nella città di Tursi, diversamente bisogna credere alla mera casualità del tutto. 

Ricordiamo che la breve ma intensa e ispirata vita di santa Caterina, all’anagrafe Caterina di Jacopo di Benincasa, si colloca quasi tutta nella seconda metà del XIV secolo, quando non soltanto la Toscana e l’Italia erano attraversate da notevoli tensioni e la stessa chiesa affrontava con la ribellione cardinalizia l’inizio del rischio scismatico. Giovanissima religiosa delle Suore della Penitenza di san Domenico, la vergine Caterina (Siena, 25 marzo 1347 -Roma, 29 aprile 1380) era l’emblema di una vocazione precocissima; ancorché priva  di maestri, imparò presto la lettura e la scrittura, ma soprattutto dettò i suoi messaggi, rivolgendosi direttamente ai papi e ai regnati come al popolo,  fino a sviluppare una  teologia e una filosofa di lucida passione argomentativa e di sconfinata interiorità, dolce  e potente al contempo e con una mistica densa ed espansiva. Lei era inserita nel suo tempo, con pienezza e consapevolezza, tanto che le furono affidati delicati impegni di rappresentanza e tentativi di mediazione. Il suo pensiero non è mai stato avulso dai temi allora pressanti, come “la pacificazione dell’Italia, la necessità della crociata, il ritorno della sede pontificia a Roma e la riforma della Chiesa”. Colpiscono l’ardire dei suoi interventi, la giovane età della morte e l’assoluta identificazione e compenetrazione con le parole di Cristo. Santa già in vita e canonizzata nel 1461 da papa Pio II, Caterina da Siena è stata dichiarata (insieme con san Francesco d’Assisi) patrona d’Italia da papa Pio XII, nel 1939, poi dottore della Chiesa da papa Paolo VI, nel 1970, e compatrona d’Europa da Giovanni Paolo II, nel 1999.

In quegli stessi anni, la diocesi di Anglona non era proprio al massimo del suo splendore e il santuario della Madonna di Anglona sull’omonimo colle e lo stesso  nucleo abitativo avevano subito danneggiamenti strutturali e un sostanziale impoverimento, dando così inizio a un concreto decadimento, anticipato dalla non residenza dei vescovi nella sede di titolarità. Quella “crisi” si concluse nel 1546, probabilmente su richiesta del vescovo Berardino Elvino e  sancita da papa Paolo III, con la traslazione della diocesi, da allora denominata di Anglona e Tursi (dal 1976, di Tursi-Lagonegro). Curiosamente, in tale secolo si trova una doppia citazione di “Anglona” e “Agnone” in alcuni atti notarili ufficiali. Per l’importanza che aveva assunto il paese, popoloso come pochissimi nell’intera regione, da allora Tursi fu elevata al rango di Città.

Inizia forse, proprio in quel periodo, un comprensibile, crescente e maggiore interessamento verso la figura e l’opera della Santa Caterina. Tant’è che si accentua la diffusione del nome, compare la denominazione di una contrada e quindi la dedica di una cappella di giuspatronato.  Una scelta originata dalla sensibilità delle massime famiglie nobili tursitane, talvolta assicurata anche nella discendenza, come capitava. Gli esempi più immediati ci arrivano dalle famiglie del rango più elevato in loco, come se avessero amato tale suggestione, segnando assieme e nella minima diacronia temporale, dunque nella sostanziale contemporaneità la loro storia familiare, con Caterina Brancalasso e Caterina Donnaperna, Caterina Panevino e Caterina Picolla, assieme a diverse altre ovviamente, proprio nei secoli XVI-XVII. E il dato culturale e storico-religioso, si afferma  in loco anche nella evidenza toponomastica e nel culto ufficiale. La spontanea devozione attrattiva, appena un secolo dopo la canonizzazione di Caterina da Siena, non la si può escludere, quand’anche lo stesso nome fosse casualmente presente in precedenza, poiché esso compare contestualmente nel riferimento territoriale o addirittura urbano, oltre che come luogo di venerazione dentro una delle tre chiese parrocchiali. Ai primi decenni del 1600, si trova scritto in un documento “In Tursi in contrada ‘Santa Caterina’ in Rabatana”, tale  indicazione era, dunque, integralmente nel comprensorio della Rabatana, dove esisteva un convento di San Domenico, ordine al quale apparteneva anche santa Caterina. Subito dopo, nella seconda metà del 1600, dopo una chiara sedimentazione della volontà, si vuole dedicarle una cappella.

In un altro documento, del 1666, la descrizione dell’antefatto: “Con i crediti sull’Università di Bernalda e di Craco spettanti al dottor Francesco Antonio Andreassi, commorante in Napoli, il quale vorrebbe far erigere nella chiesa di S. Anna extra moenia una cappella sotto il titolo di S. Caterina e dell’Annunciazione della Beata Vergine e, con la restante parte, debbano istituire un conservatorio femminile adattando a tale scopo la casa palaziata ‘in strata Santa Crucis’ dell’Andreassi, dopo aver ottenuto il beneplacito del vescovo di Anglona e Tursi, mons. Francesco Antonio de Luca”. L’iniziativa parte da padre Giulio Cesare Modarelli, preposito dell’Oratorio di S. Filippo Neri di Tursi, con il dottor Giacchino Picolla e Francesco Antonio Panevino, quali  procuratori del dottor Andreassi, potendo già disporre della somma riscossa da Vespasiano Fortunato di Gifuni.

La decisione matura  ulteriormente, perché la cappella di S. Caterina è stata poi eretta non fuori dalla città bensì nel cuore del centro abitato, nell’importante e storica chiesa parrocchiale di S. Michele Arcangelo, sempre di giuspatronato (diritto di patronato) della famiglia Andreassi. Nel 1690, fu cappellano il rev. don Domenico Taranto, poi a lungo padre Giovan Lorenzo Panevino, dell’Oratorio di S. Filippo Neri, dal 1665 al 1720 (?). Dal 1732 fu cappellano il rev. don Carlo Gagliardo, della terra di Santo Chirico. Per fugare qualche legittimo dubbio, basterà ricordare che almeno nella potente famiglia Brancalasso era noto il culto per san Cataldo, san Biagio, santa Lucia e, appunto, santa Caterina, tutti raffigurati appena sotto il quadro “coll’effigie della S.S.ma Vergine e col Bambino in Braccia rappresentante S.M. delle Grazie”, quando decisero (1663) di “fabricar S. Maria Le Grazie, una Cappella a Lamia con picciola sagrestia”, all’esterno della Cattedrale dell’Annunziata, dove attualmente l’appartata chiesetta è collocata.

La manifesta volontà, precisata, assume un ulteriore valore se ricordiamo che i nobili Andreassi possedevano in Tursi altre cappelle di giuspatronato, due nella chiesa collegiata Santa Maria Maggiore della Rabatana e una nella (sfortunata) chiesa di Sant’Anna, allora di recente costruzione:

Cappella di S. Maria Le Grazie,  eretta dentro la chiesa di S. Anna extra moenia, quest’ultima costruita nel 1627-30, quando era vescovo mons. Alfonso Gigliolo (1619-1630), di Ferrara. Il reverendo U.J.D. canonico don Biagio Panevino fu cappellano per un ventennio, dal 1714 al 1733.

Cappella del Carmine, nella chiesa Collegiata della Rabatana. Dopo la morte del cappellano, il rev. don Pietr’Antonio Durante, gli successe il rev. canonico don Andrea Durante, la cui presentazione e nomina a cappellano avvenne nel 1683, da parte di Giulia Rezza di Tursi, erede e nipote della fu Giulia Fiorino, “sua ava”. Nel 1708 e in quel periodo fu cappellano padre Giovanni Antonio Margiotta.

Cappella dell’Assunzione, pure dentro la chiesa della Rabatana. Nel 1692, fu cappellano padre Francesco Guida, dell’Oratorio di S. Filippo Neri di Tursi. Dal 1710 al 1742, fu cappellano padre Paolo Panevino (nel 1730 era  dell’Oratorio di S. Filippo Neri).

Dunque, tutto può/dovrebbe servire a ricostruire la vita quotidiana e il clima religioso e sociale di una comunità, anche attraverso i resti della memoria che non andrebbero mai dispersi o sottovalutati, quand’anche scaturissero da simboli, gesti ed eventi minori o minoritari, per la costruzione della nostra continua identità collettiva.

Salvatore Verde

La chiesa di san Michele Arcangelo (da tempo chiusa al culto), nell’omonimo rione

Due vedute della chiesa di San Michele Arcangelo che ben rendono l’idea della imponente costruzione e dei vari livelli di antica praticabilità, nonostante il duplice crollo del campanile e della grande parte centrale

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