Dopo aver commemorato padri, fratelli, zii e cognati dei loro genitori, i fratelli studiosi di storia della famiglia Brancalasso scrivono anche la memoria dell’eroica vita del Dottor Tomaso Brancalassi, che fu egli stesso co-autore, con gli altri tre fratelli, del lungo e dettagliato manoscritto dal titolo Fedel memoria degli Uomini Illustri, Parenti, Stabili, Urbani e Rurali, Jus, Doti, Ragioni, Servitù, Prelazioni, Cappellanie, Benefici e sue Rendite, Notizie antiche appartenenti alla gentilizia famiglia BRANCALASSO, che ora si rappresenta dalli fratelli, Dottor Don Tommaso, Dottori Canonici della Cattedrale: Don Filippo, Abate Don Carlo e Don Nicolò Brancalasso, registrata nel 1744 (con una estensione temporale degli accadimenti dal 1443 al 1797). Il testo è stato interpretato e trascritto con acume e lavoro pluriennale dalla studiosa Ambra Piccirillo, coniuge del medico Ciriaco Sciarrillo Brancalassi, depositari del documento e tra gli ultimi discendenti della famiglia nelle Marche, la quale annovera eredi anche a Tursi. A tale opera collettiva, purtroppo ancora inedita, occorre sempre rifarsi per tutte le umane ed essenziali vicende dell’antica, grande e nobile famiglia, oltre che potente e anche un po’ misteriosa.
Vita di Don Tomaso ©
Bell’uomo, oratore abile e raffinato, dotato di carisma e di vasta cultura, Don Tommaso Brancalassi (8 dicembre 1696 – 3 marzo 1753) fu avvocato valoroso e di fama, ma soprattutto legatissimo agli affetti e alla famiglia, ma fu pure un padre sfortunato poiché, alla sua morte (aveva 56 anni), solo cinque degli undici figli gli sopravvissero, con la moglie Antonia Giordano. Si interessò dei beni patrimoniali e ne acquisì altri, migliorò e rese coltivabili molti terreni che aveva provveduto, anche a sue spese, a far disboscare e a rendere irrigabili. Inoltre, risolse problemi delicati di confini delle proprietà in campagna e per la gestione e successione della Cappella di San Leonardo, oltre ad adoperarsi tantissimo per la chiesa di San Michele Arcangelo. Nel tributo dei fratelli Don Filippo, Abate Don Carlo e Don Nicolò, tutti Dottori Canonici della Cattedrale, si può cogliere pienamente non soltanto il sentimento naturale di affetto e stima sconfinata, ma perfino, tra le righe, una velata tenerezza, per loro non proprio usuale nelle manifestazioni pubbliche. Nella moltitudine degli appartenenti alla gigantesca genealogia tursitana dei Brancalasso (in loco almeno dal XV secolo, ma forse anche prima), Tomaso è stato con tutta probabilità il clerico con maggiore senso di giustizia e con palesati sentimenti di autentica religiosità, considerando a parte le numerose personalità ecclesiastiche di famiglia che si sono susseguite nelle diverse generazioni, per quattrocento anni.
Terzogenito del Dottor Don Pomponio Brancalassi (25 agosto 1667 – Putignano, Bari, 29/30 gennaio 1718) e di Donna Geronima Manzi (1671/73 – 27 luglio 1738), uniti in matrimonio l’8 gennaio 1693, il piccolo Tomaso fu battezzato nella Cattedrale di Tursi, giovedì 13 dicembre 1696, ed ebbe come padrino, “tenuto e lavato nel Sacro fonte, il Don Signor” Antonio Latronico. Giunto “all’uso di ragione”, fu tradotto nella terra della Nocara e sollecitato nei primi elementi della grammatica, sotto la disciplina dei parenti della nonna Donna Ipppolita Bitonte (1635/40 – gennaio 1733), detta Popa, seconda moglie di Don Camillo Brancalassi (1610/15 – 1670/73). Quando Tomaso fece ritorno a Tursi, sua Padria, suo padre Ponponio vide quanto si applicasse negli studi e lo portò con sé a Pisticci, dove, “da Vicario Generale e Giudice, e Ajo dei Signori Conti di Accerra egli governava quella Terra”. Tuttavia, fondatosi il Seminario a Tursi, il giovane rientrò e si applicò alle belle lettere e alle erudizioni, dando dimostrazione di alto sapere e “facendo gara fra scolari egli sempre era il Cesare contro Pompeo e Pompeiani senza mai perdere, e trionfi e bandiere”. Terminati gli studi in loco, nel 1709, Tomaso andò nella città di Nicotera, dove era vescovo suo zio mons. Don Antonio Manzi (1642/43 – 29 maggio/novembre 1713), che era stato in precedenza e per tredici anni Vicario Generale a Malta; quindi, sotto l’ubbidienza e disciplina del Prelato, si diede alla filosofia e teologia e allo studio e commento delle sacre scritture, con spiegazioni, interpretazioni e pubbliche conclusioni (“come una si trova stampata nel nostro Archivio”).
Disgraziatamente lo zio prelato morì dopo quattro anni circa, nel 1713, e Tomaso fu costretto a ritornarsene a Tursi, proprio quando si pensava di mandarlo a Malta, dove erano ancora fresche le stimate e gloriose memorie del fratello del vescovo Don Antonio, il Commendatore Fra’ Gio: Domenico Manzi (1622? – 1710), questi Segretario della nazione Italiana dell’Ordine dei Cavalieri di Malta e Commendatore della Commenda di santa Maria di Picciano, a Matera, e di Maraggi (?), in Lecce, morto a 87 anni. Tra le altre opere incompiutee realizzate da Frà Gio: Domenico Manzi, la più importante è sicuramente “Instruzione per i Cappellani delle Galere della Sacra Milizia dell’Ordine di San Gio: Gerosolomitano: dal Commendatore Frà Gio: Domenico Manzi Cappellano Conventuale dell’Ordine medesimo in questa prima idea formata, et a profitto dei Reverendissimi sacerdoti e religiosi, suoi fratti con ogni rispetto proposta”, un’opera “piena di dogmi e di morali dottrine confacenti a tutte le istruzioni da farsi nelle galere e fu stimata assai utile a detto Ordine, dedicata “all’Illustrissimo Dottor Monsignor Francesco Pietro Viani, Priore generale dell’Ordine di San Gio: Gerolosomitano”; ma non si ha certezza della sua avvenuta pubblicazione a Malta, pur “se fusse data alle stampe colà non si ave memoria, ma bensì copia originale scritta di proprio pugno si rattrova nel nostro studio”. Ebbene, tale documento eccezionale, “che è in foglio, di carattere proprio che vince la stampa nel legerlo”, fu portato a Tursi proprio da Tomaso Brancalasso, al rientro da Nicotera. Terminati gli studi integrati negli “Istituti Civili e Canonici”, compresi da suo padre, a diciannove anni andò a Napoli dove, due anni dopo, esattamente nel 1716, si laureò “Iudicatus magna Curia Vicarii”. Nello stesso anno seguì il genitore Don Pomponio Brancalassi nella Provincia di Bari, in diverse parti come Giudice e Governatore, fino nella Terra di Fasano e quindi a Potognano (Putignano, Bari, nda), dove il genitore era approdato ad esercitare l’incarico e dove morì alla fine di gennaio del 1718. Rimasto senza padre, Tomaso fece ancora una volta ritorno a Tursi, solo con il fratello Don Filippo, allora quindicenne (diverrà poi arciprete).
Undici i figli di Antonia Giordano e Don Tomaso ©
Cominciò la carriera di avvocato e continuò ad esercitare sempre la professione, in modo valoroso e assai (con)vincente, tanto che il prestigio si diffuse nel più vasto territorio calabro-lucano. Nel testamento del fratello del padre Ponponio, lo zio Don Gio: Andrea Brancalasso (29 gennaio 1669 – 23 settembre 1725), Arciprete alla Chiesa Cattedrale, questi così si rivolse alla famiglia di don Tomaso, suo nipote: “chiamo il Don Tomaso suoi figli, e descendenti usque ad infinitum. Item voglio, che in tutti li miei beni si troveranno in detta mia eredità prima d’ogni altro vi habbia l’Ippoteca speciale la Signora Antonia Giordano futura moglie del Don Tomaso mio nepote: in quella conformità mi obbligai nelli Capitoli matrimoniali, atteso così è la mia volontà”. Sua moglie, dunque, fu la Sig.ra Antonia Giordano, figlia del Dottor Don Nicolò Giordano e di Donna Felice Donnaperna, sorella del Barone Don Nicolò Donnaperna. Lo stesso arciprete Don Gio: Andrea redasse i capitoli matrimoniali del Dottor Tomaso con la Signora Antonia, che “venne ad esser nipote carnale di detto Barone”. La coppia procreò undici figlioli, sei maschi e cinque femmine, ma dopo la morte di Tomaso, nel 1753, restarono viventi solo due maschi, cioè Gio. Andrea e Vincenzo Maria, con tre femmine, Catarina, Irene e Geronima, essendo già deceduti i due Pomponii e l’altro Gio. Andrea, come pure le figliole Agnese, Felice, Teresa e un’altra Agnesa. Nel pieno della maturità, essendo egli quarantenne nel 1736, pensò di andare a Napoli, come Auditore nei Tribunali Collegiali, uscendo già una volta nella lista del Sig. Vicerè Visconte, impegnato dalla Signora Marchesa di Serracupa Arese (“un biglietto si conserva nell’archivio”). Ma ritiratosi una volta a casa, “non più vi attese” e si dedicò solo “all’interessi della professione e della sua Famiglia”. Don Tomaso si applicò nel “foro Civile ed a patrocinare le cause ed era così impegnato, che per quanto si è stato nella nostra memoria non ne avesse perduta una, poiché li concorrevano tutte le buone qualità, spirito, vivacità, eloquenza, bellezza…bastandoli di sentir il contraddittore per confutarlo e così nello scrivere abbondava alle volte dove era necessario e si dimostrava prolisso per persuadere il Giudice e contrattava di carteggio”.
Avvocato straordinario, Don Tomaso fu eccellente esponente di una superlativa tradizione ©
Ad accrescere “la fama nella legale scienza concorsero non solamente i clienti forastieri e lontani dalla Città, ma anche tutti i baroni” che lo onorarono “con patenti di Giudici”, poiché con lui si consigliavano “nelle prime e seconde cause, consultava ed agente e convenuto, come fu in Lauria, Rotondella e Favale e Roseto in un governo il Principe dell’Alesi, il Marchese di San Daro, per Oriolo, Cassandria (?) e Castroreggio”, il Duca Crivelli per la Rocc’Arapostale, il barone Donnaperna per Colobraro e Calvera, il Duca Norgara per Craco nello spazio di tutta la sua vita, il duca di Cerasole per Montalbano, il Priore di San Nicola per Castronuovo, e Francavilla, il Duca di Francia di Sangro per Senisi, così in Sant’Arcangelo, ed altre terre alle quali fu giudice, o di prime o di seconde”. Dal voluminoso fascicolo di documenti (“fascio delle patenti che si conservano nel nostro Archivio”), risultano chiari tutti i suoi impieghi e, fra i citati Baroni, Don Tomaso si mostrò più impegnato (applicato) al Duca di Lauria Ulloa e a suo figlio Don Ciro, per lui e per le sue attività (governo) e a difesa dei suoi vassalli, furono tanti i suoi interventi (le sue operazioni) per i continui litigi che il Duca aveva fatto, fino a perdere la salute e anche (finalmente / alla fine) la vita. Don Tomaso fu quello che risolse “(disimpegnò) la causa dei confini di Calvera e Carbona”, che oppose il Cardinale Ferrara al Barone Donnaperna, questi vittoriosamente difeso davanti al Daziale Provinciale; e anche se il Canonico Don Matteo Donnaperna credette di aver speso moltissimi zecchini fino all’esito del contrasto giudiziario, tutta la cifra gli fu restituita, tanto che, per l’ammirazione di tale patrocinio, il Canonico decise di destinargli la metà della somma, ma il grande avvocato generosamente li rifiutò. Tuttavia, la volontà del canonico di essere riconoscente si ripropose, “non andò disparo la di lui generosità”, poiché subito annunziò al fratello di Tomaso, Don Niccolò Brancalassi, che gli avrebbe lasciato libero il Canonicato e, inoltre, “nel testamento onorò in perpetuo la sua discendenza (di don Tomaso, nda) nelle doti per il Monte fondato dal Dottor Canonico Don Matteo”. E per assicurare la permanenza perpetua del Monte alla sua discendenza, Tomaso non si perdette d’animo neanche coi Baroni Donnaperna, suoi zii, contrastandoli in ogni Tribunale e non risparmiandosi mai sotto tutti i punti vista, “senza considerare alla grandezza della spesa, e fu così vigoroso e generoso che il tutto superò, come apparisce da due voluminosi Processi nella Banca di Niccolò Gerace”; fu cosi che suo fratello, l’Arciprete Dottor Don Canonico Filippo, per testamento depositò 600 ducati in dote alla nipote Catarina Brancalassi, figlia di Tomaso,“diede l’ultima mano, da soddisfarsi nel tempo del matrimonio” (come appare nei decreti emanati il 22 di settembre 1747, nella citata Banca di Gerace).
Bisogna ricordare pure che Don Tomaso, senza badare a spese, “ buttando l’oro per terra, che alla spesa, così diceva”, e senza “le sue diurne e notturne fatighe con accessi di tanti ministri che appariscono nel nostro archivio”, spendendo l’enorme cifra di 800 ducati circa, superò Don Francesco Margiotta nella “causa dell’acqua di Marone”. Ma fra tutte le sue memorie, “questa sarà eterna per la sua discendenza, che ne avrà sempre il beneficio per potersi collocare le femmine alla loro pari”, essendo il detto Monte costituito da 12 mila ducati, otto per parte di eredità del Canonico Don Melchiorre Donnaperna, primo fondatore, e quattromila sopra l’asse del canonico don Matteo Donnaperna, i quali allora pagavano quattrocentottanta ducati ogni anno (di tale Monte – i fratelli storici – si promisero di narrare a parte la memoria dei fatti accaduti, nda). Tomaso fu quello che pensò di ottenere la Cappella di San Lionardo, sita nella Chiesa Cattedrale, “posta nell’ordine simmetrico come dalla di lui bolla d’investitura”, fattagli da Monsignor Don Ettore Guardi/Quarti/Del Quarto (28 novembre 1721 – 17 novembre 1734, poi a Caserta); e fu colui che con il fratello Canonico Don Nicolò Brancalassi fabbricarono insieme i magazzini alle case superiori; rinnovò la Masseria di Basso, dilatò li confini e si diede a sboscare il territorio di Marone “fatto a bombace, giardini e arbori che si veggono tutti adacquabili, della spesa di ducati mille incirca” (testamento del Notaio Gio: Battista Pasca, del 27 febbraio 1753) e, per quanto gli fu possibile, fece di tutto per rendere quel territorio “singolare e fruttifero alla casa”.
Dopo due anni di malattia, Don Tomaso Brancalassi morì di polmonite ©
Quand’era nel periodo di massimo impegno (applicazione), nel 1752 perdette un poco la vista, anche a causa “dello scrivere tanto nei negozi ed affari” di Don Ciro Ulloa Barone Della Rotondella, poi si aggravò molto. Si diede nelle mani dei medici, “li quali facendogli cura per tanti medicamenti da grasso e pingue ed in perfetta sanità (che era) diventò una scheletro che fattosi comprensivo nella mutazione della sua salute cominciò a perdere le forze”. Agli estensori della storia della famiglia, curiosamente, non sfuggirono alcuni segni premonitori, “avvenimenti infausti che precederono nella sua morte (poiché) vi fu la mortalità di sessanta vacche con due gran tori e un maiale benchè venduto a ducati 96, e cadde il trappeto (frantoio), che fu rinomato”. Don Tomaso cedette all’improvviso il 22 febbraio 1753, e senza che i medici potessero fare qualcosa, dopo due anni di sofferta infermità “all’impiedi senza mai fare conto, cadde infermo da mal di punta (polmonite, nda), e per quanto s’affaticarono i medici ogni diligenza fu vana”, essendo nota la sua fragilità, com’era risaputa la passione per i figli “tutti pupilli” e per i fratelli Dottor Don Filippo Arciprete, Dottor Don Carlo Decano e Dottor Don Nicolò Canonico, narratori delle vicende familiari (assieme a lui stesso). Ebbe solo il tempo di rendersene conto, “fatta la cerimoniale osservanza e Benedizione ai figli, si rassegnò tutto nel Signore” e fece il suo testamento la settimana dopo, il 29 febbraio, stabilendo “ciocchè ha lasciato ad essi”, quindi, “munito di Sagramenti colla ultima agevolazione del Prelato, nel giorno di 3 di marzo 1753 verso l’ore due della notte”, morì a 56 anni “incirca, come apparisce dalla descrizione che questa sola e quella del suo ritratto – che – ho il piacere qui di trascriverle”. Fu sepolto nella mattinata e furono rivolti epitaffi, elogi e cenotafi alla “castellana che a niuno furono così con pompa fatti e di tant’altri che un libro ne sta composto e registrato nel nostro Archivio”. Uomo di bellissimo aspetto, facezioso nelle conversazioni, facendosi ascoltare con piacere, risentibile,con lo sguardo naturale allegro e intenso, era di piena integrità nel giudicare, cauto nelle scritture, amoroso verso i Poveri e i clienti, per i quali oltrepassava i propri interessi. A tal punto che, da deputato del Santissimo della Parrocchia della Chiesa di San Michele, per lui trasformatosi in un incarico a vita, cominciò a sistemarla “nella semetria delle Colonne, del pavimento, sepulture, croce d’argento, in due volte la campana maggiore, organo, atrio, arriccio, gradiane, palconate, perché prima era peggiore della spelonca dei ladri”. Seppe far castigare dalla giustizia i maligni invidiosi, perciò colpevoli, senza che costoro lo distraessero dai suoi impegni: “E sebbene per qualche invidia hebbe qualche disgusto d’alcuni malevoli, ma non fe restar impunita la di loro reità per mano della giustizia, e sempre superante all’impegnii traprendeva”.
Alcune proprietà di Don Tomaso e Antonia ©
Tra le proprietà di Don Tomaso, poi lasciate in eredità, citiamo almeno; la vigna in contrada dell’Imbreci; una casa “per cui si sale per gradiata ora magazeno, che sotto l’ultima camera del Palaggio”; un comprensorio di terre “seminatorie a grano nella contrada detta delli Pantoni ora misurato in tom. sessanta in circa dimaniali di questa città di Tursi franco, e libero”; la masseria nel Feudo di Anglona, nella contrada detta di Marone, “pervenuta in dote della Signora Antonia Giordano data la Don Tomaso Brancalassi dopo che furono stabiliti i Capitoli matrimoniali”. Inoltre, la cappella di S. Lionardo, eretta “nella man deritta alla nave piccola della Chiesa Cattedrale a canto della Porta piccola verso mezo giorno ora Juspadronato attivo, e passivo delli figli, e descendenti del Dottor Don Tomaso Brancalassi acquisto fatto dal medesimo” (tuttavia,meriterebbe un intervento a parte la lunga e intrigante vicenda della cappella di S. Leonardo).
La figlia Caterina sposò Marc’Antonio Arcieri ©
Donna Caterina Brancalassi, prima figliola del Dottor Don Tomaso Brancalassi e Donna Antonia Giordano, di anni diciannove, alta e bella anche nelle fattezze del corpo e di tutte virtù e politica, si maritò il 17 gennaio 1761 col Dottor Signor Don Marc’Antonio Arcieri, di nobile famiglia, ricca e timorata di Dio, nipote del Dottor Don Giacomo Arcieri. Lo sposalizio riuscì con tutta la possibile pompa, tanto in casa propria quanto in quella di San Mauro, destando lo stupore di tutti i vicini. La cifra a carico dello sposo fu di 3000 ducati, per la “roba, vesti, sopravesti e spoglie ed ogn’altro che poteva desiderarsi”. La stipula del matrimonio fu fatta dalla felice memoria del Signor Barone di Colobraro Don Nicolò Donnaperna e si firmò davanti a lui, il 15 settembre 1759, a Napoli (fu l’ultima firma poiché il Barone morì pochi giorni dopo, il 23 settembre 1759), e alla presenza di Don Gio: Andrea Brancalassi, fratello di Donna Caterina, e “la di lei dote fu di ducati mille e fu data nel modo che segue: – ducati 600 dal Monte del Canonico don Matteo Donnaperna; – ducati 200 anche di contanti dati dall’Arciprete Dottore don Filippo Brancalassi; abbenchè apparisce tutorio nomine, ducati; – 100 di vacche, ducati cento d’oro, ducati cento cinquanta di paramenti ed ottantacinque di drappo, in tocco che fanno la somma di ducati 1200, come dalli capitoli matrimoniali e stipula fatta in San Mauro in dono et in potestate curiae colla renuncia alle donazioni e patti successorii” (clausole e capitoli conservati dal Notaio Gio: Battista Pasca di Tursi, stipulati in San Mauro il 6 gennaio 1761). In tale dote “vi feci capire una fede di credito di ducati 50 a saldo e complimento di ducati 1200; ed è del tenor seguente: – Banco del Popolo : ducati 500 per Don Filippo Brancalassi a 22 novembre 1760. La girata è questa: Li pagherete al Signor Dottor Marc’Antonio Arcieri e li medesimi sono a saldo della dote conferitagli di ducati 1200, e così pagherete e non altrimenti, San Mauro 6 gennaio 1761- Filippo Brancalassi. Onde ogni mese si suol incontrare la detta fede come clausola nel nostro Banco”.
La figlia Irena fu monaca a Tricarico ©
Donna Irena Brancalassi, secondogenita di Don Tomaso e Donna Antonia, fece totale rinuncia il 23 maggio 1769 delle sue eredità paterne e materne “tam ex testamento quam ab intestato”, a beneficio dei suoi fratelli Gio: e Antonio. Volle farsi suora. Tanto deciseper entrare da religiosa nel Monastero di Santa Chiara di Tricarico, accontentandosi della dote spirituale e di tutte le altre spese necessarie che si erogano per il viaggio, l’ingresso e la professione di religiosità. “Questa figliola è stata chiamata da Dio, senza che lei fosse stata insinuata da parenti, sul motivo che nel detto monastero si trovava sangue della casa Arcieri, abbadessa e sorelle, del Dottor Don Marc’Antonio Arcieri; e così fu provveduta di tutto il bisogno, con ogni decoro e con abiti fatti secondo la nota, che si conserva nell’archivio della casa”. La partenza effettiva avvenne il 27 maggio 1761, ma la rinuncia fu stipulata il 24 dello stesso mese, dal notaio Gio: B. Pasca. Pagò trecento ducati “per potersi godere dall’altra sorella” Caterina Brancalassi, primogenita, maritata con il Dottor Don Marc’Antonio Arcieri. La dote al monastero fu pagata tramite il Banco di San Salvatore, intestato a Francesco Ceceri, e spedito il 14 novembre 1765, “con la girata a Irena Brancalassi di Tursi”.
Salvatore Verde ©